TRAMA
A Roma non piove da tre anni e la mancanza d’acqua stravolge regole e abitudini…
RECENSIONI
Parlare di Siccità senza considerarne il contesto sarebbe un errore procedurale, se non del tutto metodologico. Il discorso, infatti, si “ridurrebbe” all’analisi di una distopia in salsa romana (già comunque premessa interessante, tipo The Road, Hillcoat 2009, ma co’ ‘na pajata), in cui la post-apocalissi è generata dalla mancanza delle piogge. E però va ricordato come i film, pur parlando anzitutto di per se stessi, costituiscono il laboratorio attraverso cui si esprimono determinati momenti storici. In termini più aulici, attraverso il cinema si filtra uno Zeitgeist. Così Siccità si configura non solo come la messinscena di un mosaico di varia, disastrata umanità, che cerca come può di barcamenarsi in un mondo in sfaldamento, ma anche in quanto esperienza cinematografica dell’immediato post(?)pandemia, epoca (presente) in cui la sospirata boccata d’ossigeno dopo gli spauracchi del virus deve confrontarsi con l’inevitabile giogo del cambiamento climatico (per non dire peggio). Non il primo film ecologicamente orientato, si dirà, né forse l’ultimo, ma in qualche modo il film giusto al momento giusto.
Profetico in questo senso Virzì, che nello scrivere e dirigere un film ambientato in un futuro sempre più prossimo – così come accade, tristemente, nei disaster movies contemporanei non più immaginati nell’anno 3000 ma ogni volta più vicini a noi – prevede, quasi letteralmente, l’estate 2022, segnata in Italia da una spaventosa siccità.
Va da sé che il ruolo del critico diviene complesso, di fronte a qualcosa che in maniera tanto prepotente ci convoca e ci spaventa. Come mantenersi calmi, come preservare la propria lucidità di fronte a uno scenario che in via definitiva non ci diverte più, come succedeva un tempo con i mondi in negativo messi in scena nelle sale, perché sentiamo tanto aderente a noi? Come trattare un’opera che, pur nello snodarsi attraverso figure a tratti davvero arche(o stereo)tipiche è in fondo la fotografia, quasi materialmente percettibile, dell’imminente catastrofe? Forse in questo caso è la critica stessa a doversi, come dire, mettere di lato, rispettando il film che esorbita, che esce fuori da sé e dal proprio piano di immanenza e ci chiede di fare altrettanto nel giudicarlo. Sono passati 50 anni da 2022: I sopravvissuti, Fleischer 1973, quando potevamo concederci il lusso di trattare certe opere come giochi di fantasia. Se il cinema intercetta (e detta) lo spirito del tempo, la critica deve posizionarsi di conseguenza (e poi, ma questo è chiaro, cercare anche al contempo di astrarsi verso un presunto valore generale, che “resista” all’obsolescenza delle contingenze delle produzioni e delle proiezioni).
Ecco dunque che Siccità acquisisce una propria maestosa volumetria. Retta dalla obiettiva competenza della regia (si veda la sequenza iniziale, il cui montaggio alternato in combinazione con la musica costruisce una tensione magistrale), così come da una fotografia tanto bruciata da far stare male; ma pure dalla rodata esperienza di attrici e attori i quali, nel sacrificio individuale di un film a vocazione corale, esprimono in pieno il disagio di un’umanità aggrappata alle sue piccolezze come unica forma rimasta di appiglio rispetto al desquamarsi della natura. Non c’è più acqua a Roma, ma ancora si frequentano i bar, ancora si lavora, ancora si tradiscono i propri amori. Siamo nel pieno della poetica virziana, il cui cinema ci ha abituato alla frenesia della doppia lente posta tanto sul contesto macrosociale quanto sulle storie dei singoli che vi soggiacciono. Una poetica che se a tratti può assumere qualche connotato un po’ smaccato, è qui pienamente motivata in sede narrativa: le storie intense e sclerotizzate di questi personaggi quasi schematicamente messi in scena (la madre-dottoressa severa, il padre fallito, l’imprenditore sul lastrico, la meritatamente fedifraga, il figlio incompreso, l’attore con la crisi di mezza età che ha scoperto Instagram, finanche il professore inascoltato à la Don’t Look Up, McKay 2021, e così via) sono la risposta più vivida all’aridità del mondo. Ci piace leggerle quasi come una coccola di Virzì, che già che ci ha tolto l’acqua (facendoci soffrire in maniera quasi insostenibile di fronte ai mancamenti e ai sudori messi in scena) almeno ci disseta con dei ruoli chiari, che cognitivamente riusciamo a leggere, a cui volendo ci possiamo aggrappare in un lancinante e auto-menzognero “è solo un film, è solo un film”.
Non dunque buonista, né già fastidiosamente pedagogico (checché ne potrà dire qualche recensore un po’ snob), e pur considerando alcuni nei (che credeteci abbiamo trovato, ma che pure non segnaleremo), il film è a tutti gli effetti riuscito, è buon cinema – fa piangere e, quasi disperatamente, in certi ultimi momenti, ridere – e anche forse un buon modo (ma restiamo pessimisti) per ribadire in maniera efficace l’ovvio (la crisi ecologica) agli ottusi (la politica stessa? Noi?).
Questo è Siccità. Bell(issim)o, terribile.