
TRAMA
La psicoterapeuta Sibyl mette in pausa il suo lavoro per scrivere il suo secondo romanzo. Ma la sua nuova paziente, l’aspirante attrice Margot, si rivela una fonte di ispirazione troppo allettante.
RECENSIONI
La psicanalista Sibyl torna alla sua prima passione, la scrittura, e interrompe quasi tutte le terapie per consacrarsi a un romanzo. Non respinge, però, la richiesta di aiuto di un’attrice in crisi, Margot, che diventa sua paziente e, in barba all’etica professionale, carne viva dalla quale trarre quella materia romanzesca che stenta a sgorgare naturalmente: così la protagonista forza la giovane, la spinge alle confessioni (che registra), nello stesso tempo constatando e controllando la narrazione che la paziente fa di se stessa. Ma Margot è anche un’altra donna in senso alleniano (e primariamente bergmaniano), ovvero un’esperienza di vita sfogliando la quale la protagonista rilegge la propria, chiamando in causa i suoi fantasmi: il grande amore Gabriel, un uomo che non ha dimenticato e che le ha dato una figlia che non ha mai conosciuto il padre; una dipendenza dall’alcol strettamente connessa a quel legame cruciale (Gabriel l’aveva aiutata a disintossicarsi e a pubblicare il suo primo romanzo); la gelosia della sorella e un rapporto problematico con una madre, morta in un incidente dalle circostanze mai chiarite, il cui influsso Sibyl sente operare perversamente sul suo vissuto e ripercuotersi di riflesso sulla figlia.
In equilibrio tra i due ruoli di terapeuta e scrittrice, Sibyl da un lato manipola la giovane, prolungandone i drammi a suo vantaggio, dall’altro è manipolata da Margot che le delega la scelta di abortire, le attribuisce decisioni personali, la spinge a colpevolizzarsi fino a indurla a tradire il suo ruolo e a presentarsi sul set del film che sta girando con l’amante come copratogonista e la donna di lui come regista. Una spirale pericolosa che non riesce a controllare. E che finisce col travolgerla.
Triet, seguendo l’evolversi della creazione letteraria di Sibyl (Virginie Efira, strepitosa), ne compone la storia punteggiandola di frammenti del suo tormentato passato, in forma di flashback mai annunciati, brevi frammenti muti o lunghi passaggi dialogati: lo fa in forza di un lavoro di montaggio pregevole, senza premesse o didascaliche indicazioni, come semplici echi sul presente, note a margine che dicono dei motivi personali che proliferano, vertiginosi, e del percorso di autoanalisi che vanno a innescare. Soprattutto, pur ammiccandovi o praticandola apertamente, non piega mai la commedia a velo pretestuoso volto a celare la disperazione: il baratro esistenziale, ai bordi del quale la protagonista cammina, rimane sempre visibile, minaccioso, oscuro. Merito di una scrittura di precisione rara che gioca sulla spirale di livelli che si innesca e che, nel confronto con Margot (Adèle Exarchopoulos) sfuma il ritratto di Sibyl come donna condannata a fingere, attrice della propria vita e regista di quella altrui (anche letteralmente: l’esperienza sul set di Stromboli). E che solo alla fine, sull’onda di un dialogo innocente e disarmante con la figlia, saprà spogliarsi dell’abito di scena e concedersi il lusso di un rimpianto autentico.
