Commedia, MUBI

SHIVA BABY

NazioneU.S.A.
Anno Produzione2020
Genere
Durata77'
Sceneggiatura
Fotografia
Montaggio
Scenografia
Musiche

TRAMA

Durante un evento funebre in una casa, la giovane Danielle – che è lì con i genitori – si imbatte nel suo sugar daddy, accompagnato da moglie di successo con bambina, e in Maya, la sua ex con cui ha forse conosciuto l’amore. Ogni equilibrio, va da sé, da qui in avanti cammina su un filo.

RECENSIONI

Un pomeriggio, una casa, una ragazza e un assembramento di parenti e conoscenti, di umori e amori non troppo identificati nel corso di uno shiva (settimana di lutto della tradizione ebraica). Shiva Baby, esordio nel lungometraggio che la canadese Emma Seligman ricava da un suo precedente corto dallo stesso titolo e con la stessa protagonista interpretata da Rachel Sennott (Danielle), è una commedia che danza vivace sui contorni della parola e del gesto, sulle correlazioni e disintermediazioni tra le loro parti, su quelle incertezze continuamente riprodotte e dislocate di cui il volto e il corpo di Danielle sono malcapitati depositari. È una sugar baby, Danielle: la relazione con il suo sugar daddy Max (Danny Deferrari), uomo più maturo e facoltoso (grazie alla consorte imprenditrice, soprattutto), passa dal denaro, dagli oggetti, dal sesso. È chiaramente una questione di potere, di poteri; più fumoso è individuarne distribuzioni e dinamiche, confini e sconfinamenti. Con Maya (Molly Gordon) il contatto è un territorio aperto, un involucro del desiderio. I genitori della protagonista – Polly Draper e Fred Melamed – palleggiano nel campo da gioco disfunzionale famigliare con innato talento.

Danielle dice che il femminismo per lei è un filtro, una lente per interpretare le cose, ma è proprio ciò che è tremendamente prossimo a lei che non riesce a decodificare, a leggere, a mettere a fuoco, come se non potesse produrre infine immagini interne, immagini di sé, in un mondo che si riassume in una casa di sconosciuti, tra gente di cui a stento si ricorda, tra persone che le domandano della sua vita e del suo futuro. Un film che è scentrato come lei ma concentrazionario; un racconto di formazione buffo e sbilenco dalla scrittura perfettamente manualistica nella costruzione dei caratteri e dei dialoghi; un trattato in scioltezza indie che maneggia il grottesco e stempera ogni possibilità drammatica rimanendo sempre sotto la soglia d'allerta.
Un'opera più brillante che bella, che intercetta la misura umana nel contrasto, nell'effetto acuminato, nella prova attoriale, nel set che sembra l'acquario in cui Daniele è immersa. Seligman anima l’inadeguatezza di questo personaggio tra il teatro e il cartoon (Rachel Sennott, classe 1995, articola il comico e l'angoscia quasi con disciplina, gioca con la gestione dello spazio, veste il linguaggio del film), la regista riunisce figure perlopiù irritanti ma difficilmente detestabili; Ariel Marx sonorizza il tutto come un movimento, una minaccia, un abisso, un'esplosione imminente. È un film di un'evidenza strana, falsamente compiuta, è un'assemblea stordente di domande, imbarazzi, pettegolezzi, sentimenti pendolari e commisti. Una polveriera. Lo sguardo della cineasta è ravvicinato, l'analisi impossibile, come lo è l’identificazione di Danielle.  Estranea a tutti, estranea a se stessa. Il film sta con lei senza necessità dimostrativa, è un flusso, una rappresentazione-contenitore, un esercizio, un'esplorazione. E il finale riesce a essere lieto anche se non lo è. È solo la fine di un incubo reale.