Shinya Tsukamoto

Scritto da due laureandi presso il DAMS di Torino, risente un poco dell’impostazione “accademica/universitaria”, con largo uso dell’analisi del film “minuto per minuto” a scapito di più elaborazione critica e tematica. Chimento e Parachini, però, oltre ad una proprietà di linguaggio che non è mai scontata di questi tempi (in cui tutti scrivono di tutto), e a una “buona scrittura” che nessuna correzione automatica di Word potrà mai sostituire, dimostrano anche di essere molto informati, non solo su questo regista giapponese oggetto di culto sin dal suo esordio “cyberpunk” TETSUO ma anche, più in generale, di cinema tout-court (almeno delle opere “faro”, storiche, come ogni buona Università insegna) e, a sorpresa (per quanto fondamentale nell’inquadrare l’autore, figlio di una cultura completamente differente dalla nostra), del panorama culturale giapponese, degli usi e costumi da cui, volente o nolente, parte il cinema analizzato.
Schematica l’organizzazione dei capitoli: ognuno è preceduto da una citazione letteraria (come usa), ognuno è incentrato su di uno stilema della poetica, ognuno ha un cappello che diventa “cappelliera” (per quanto spesso troppo stratificata e lunga, a scapito della trattazione che più interessa: Shinya Tsukamoto) che compie excursus storici, etimologici, sociologici, ideologici, linguistici sul termine scelto per rappresentare lo stilema stesso (il cyberpunk, la danza, la sessualità, il demiurgo-voyeur, il degrado e l’emarginazione, il tema del doppio, la coppia con “terzo uomo”, il passato che ritorna, la malattia-suicidio-morte, la rinascita). E’ un po’ come guardarsi l’ombelico: scelto il tema, ad esempio Shinya Tsukamoto come “demiurgo”, gli autori si chiedono da dove nasca il termine, con quale accezione sia stato utilizzato nelle Arti, per poi sciorinare citazioni filmiche che lo ricomprendano. Con questo inquadramento affrontano anche argomenti illuminanti (vedi il capitolo sul degrado e l’emarginazione), non mancano pagine interessanti e a loro modo inedite (quando, ad esempio, rinvengono le differenze con il cinema di Cronenberg, suo nume tutelare), e l’analisi di tutte le opere, almeno per quanto concerne lo stilema scelto, è puntuale e ben sviscerata.
Tutt’altro discorso la scelta di un’impostazione che rischia di esaurire ogni capitolo con lunghe sinossi delle scene dei film, invece che cercare (altra) argomentazione. Tirare le fila di più racconti è più difficile che raccontarli. I due autori potrebbero, cioè, annoiare chi i film li ha già visti (e non ha bisogno di ri-vederli su pagina scritta) e allontanare chi cerca un sussidio alla visione degli stessi (e non tante anticipazioni sulla trama). Il saggio finisce con il somigliare di più a una tesi compilativa dove si compiace il professore per l’analisi (che è poi mera sinossi) e la trattazione (il fil-rouge rinvenuto). Per interessare tutti gli altri, forse, non guastavano anche più dettagli tecnici e storici (esiguo, ad esempio, lo spazio dedicato a tutti i super 8 girati dal 1974 e alla produzione del Kaiju Theatre), più curiosità biografiche, dai set o sulla genesi di ogni film. Avrebbe reso più intrigante e comparativa la lettura anche l’inserimento di critiche/punti di vista (di punta) altrui, se non altro per rimpinguare le direttrici distintive del suo cinema. Chiude il libro un’intervista inedita al regista, che auspica una critica costruttiva e non distruttiva, quale questa spera di essere.