TRAMA
2006. I Rolling Stones in concerto al Beacon Theater di New York, durante il loro ‘A Bigger Bang Tour’.
RECENSIONI
Che cosa è rimasto da dire sui Rolling Stones, che non sia già stato raccontato, scritto e mostrato? Che cosa rimane oggi da mettere in luce sull’essenza di una band che si è appropriata fin dagli esordi delle prerogative del mito? Forse, semplicemente, il loro esserci ancora, il loro esserci stati, sempre, come alternativa granitica ai tanti idoli della liturgia del rock (il cui popolo, si sa, spesso perde la retta via); il rifugio, la casa sicura a cui tornare, ché della chiesa del rock gli Stones sono stati la pietra sulla quale furono edificate le sacre fondamenta. A considerarla nel suo complesso l’operazione che Scorsese sta portando avanti già da tempo - le ricerche sugli oscuri protomartiri del blues delle origini, la ricapitolazione della vita errante di Maestro Dylan, questa Messa solenne degli Stones al Beacon Theater, più (in cantiere) un edificante racconto sulla ricerca della felicità secondo George Harrison e, mio dio, un documentario per il sessantacinquesimo non compleanno di Bob Marley – tutto questo orapronobis, dicevo, inizialmente profuma un bel po’ di canonizzazione, di agiografia ufficiale che vuol apporre bolla & ceralacca sui fenomeni riconosciuti miracolosi. Tuttavia qui Scorsese ha aggiunto qualcosa, nel giustificare le ragioni per cui ha scelto di riprendere un concerto piuttosto che procedere come negli altri casi ad un lavoro di cut&paste documentaristico; ha affermato che la quintessenza degli Stones, oggi che hanno sessant’anni, è tutta sul palco. Oh, beh. Ce lo siamo domandato in molti, chi glielo faccia fare alla loro età, a Jagger e colleghi, di andare ancora sul palco a suonare Satisfaction. Perché non chiudersi in uno studio e giocare con Pro Tools? A quanto pare, almeno per Scorsese, la disarmante risposta dei Rolling Stones al tempo che passa (e che non è dalla parte di nessuno, le loro facce lo dimostrano) è tutta lì, nel loro esibirsi, nell’esserci di certi brani, nel loro agitarsi e risuonare nello spazio del film e malgrado il film, stavolta non colonna sonora ma essenza intangibile eppure incontestabile, il rock, fenomeno paranormale in cui si annullano le coordinate spaziali e temporali ed al quale quindi è necessario riconoscere la species del miracolo. Perciò, zero o quasi backstage, poche interviste e niente pareri di amici e groupies; soltanto gli Stones ed i loro ruoli, con l’incursione di qualche spalla tipo Jack White degli White Stripes, Buddy Guy e (orrore!) Christina Aguilera.
Per chi è divertente la casa dei divertimenti?
Quanto a loro, se c’è una dimostrazione che il rock è per natura apodittico, i Rolling Stones la incarnano dal primo singolo. Il rock non può essere, oltre certi limiti, esplorato con strumenti intellettuali e la sua presa sui nostri piedi e sui nostri bacini non gradisce, oltre un certo livello (quello, diciamo del bravo giornalista che ha suonato qualche strumento in vita sua), la disamina accademica. Così anche Mick Jagger, del quale tutto si è supposto, e tutto il contrario, sempre, e che invece va soltanto, forse, ascoltato, per vedere l’effetto che fa. Interessato al denaro, calcolatore, certo, e non soltanto perché non aveva ancora mollato la scuola finché non parve certo che i suoi giorni piovosi sarebbero stati egregiamente rischiarati dai proventi delle canzonette: questi sono aneddoti che semplicemente aggiungono qualche dettaglio al quadro. Pianificatore soprattutto per il modo studiato, da consumato pubblicitario, con il quale co-ideò e si prestò ad una campagna di product placement che funziona ancora oggi, quando ci scappa detto “preferisco i Beatles ai Rolling Stones” o viceversa. L’immagine deliberatamente provocatoria e sboccata degli Stones si infisse come un cuneo nella polpa proteiforme del pop britannico spaccandola in vari spicchi e costituendone il cuore duro ed acuminato, nonché retrogrado: da una parte i Beatles, impegnati in una ricerca di autenticità che li tenne occupati per tutta la loro carriera di autori; dall’altra i vari gruppi folgorati dal rhythm’n’blues che non vollero staccarsi da quella matrice fino a rimanere soggiogati dal quadrato magico: gli Yardbirds, Eric Burdon e gli Animals, che ripassavano gli standard afroamericani con devozione ed entusiasmo. L’altro lato occupato saldamente da una pletora di ex mod ora freakbeat già sulla strada della psichedelia, affascinati dalle selvagge iridescenze di chitarre suonate con archetti ed effetti o effettacci ricreati in studio (Creation, John’s Children, un Marc Bolan che si aggirava qua e là in attesa di trovare salda occupazione nel glam ai tempi ancora in gestazione); su di un’isola privata gli Who che erano qualche spanna sopra tutti gli altri, imprevedibili, anarchici, assordanti, sull’altro versante i gruppi rhythm’n’blues da club, più groovy, come gli Artwoods, dove già si riscaldava Jon Lord, sì quello dei Deep Purple. Al centro il sound quadrato, corretto, dei Rolling Stones, una piattaforma stabile e straordinariamente ordinata, quasi ortodossa si direbbe, da cui si partiva, insoddisfatta, la voce scivolosa, indubitabilmente più che allusiva, sfrontata e provocante di Mick Jagger, che con la sua pronuncia ed i suoi testi insolenti puntualmente negava quello che Watts, Jones, Richards e Wyman stavano affermando in termini di rigore rhythm’n’blues: il loro paradosso, il grimaldello per aprirsi ogni porta. Con questa formula gli Stones, che non si sono posti mai nella loro carriera il problema di far progredire il suono, riuscirono a pressare tutti gli altri gruppi (che erano chi più chi meno proiettati verso la ricerca di una possibile musica progressiva) in una specie di casellario dei sottogeneri, per aggiudicarsi in proprio il palco del mainstream. Soltanto con i Beatles il gioco non riuscì per bene, dal momento che le attitudini autoriali e lo sguardo puntato sul futuro di Lennon e McCartney erano assolutamente stupefacenti. Posto che ogni patrimonio musicale al quale attingevano veniva accuratamente adeguato alla bisogna con una sorta di malvagio realismo, tale “mediocritas” fece il gioco di Jagger, che riuscì nell’intento di arrivare più immediatamente ad una evidentemente vasta fascia di pubblico giovane il quale non aveva intenzione di impegnarsi a decodificare nessun particolare messaggio, fosse esso l’incitamento alla creatività, al potere dei fiori, l’uscita dagli schemi intellettuali borghesi. Jagger è sempre stato un campione dell’understatement rispetto ad ogni tentativo di inquadrarlo in un filone, vuoi il purismo blues, vuoi la contestazione dell’establishment, si è sempre tenuto abilmente a distanza da tutto, riportando con il suo agire la questione all’essenziale ontologia del rock: dare agli adolescenti una ragione per far arrabbiare i genitori. Sesso? Ok, sesso. Droga? Abbiamo anche la droga, sissignori. Rock and Roll? Beh, non è un concerto da camera questo. Ma questo sound che fate è roba da afroamericani, viene da lì. Sì, ma io sono Mick Jagger, non Little Richard. C’era un vasto pubblico pronto ad accogliere gioiosamente tanto impudente semplicismo – e questo risulta forse difficile da accettare per noi che ci siamo fatti degli anni 60 l’idea di un periodo in cui l’immaginazione e l’imprevedibilità dovevano respirarsi per la strada -, c’era qualcuno e più che qualcuno per il quale la casa dei divertimenti degli Stones era divertente, e valeva la pena bere fino in fondo il drink allungato di interi dischi per arrivare all’oliva dei pochi brani autenticamente sconvolgenti che il gruppo ebbe la fortuna di creare. A considerare questi pezzi da vicino (Jumpin’ Jack Flash, Under My Thumb, Satisfaction, Gimme Shelter, You Can’t Always Get What You Want) l’impressione che se ne ricava è che gli Stones abbiano continuato ad affermare veementemente sempre la stessa ostinata asserzione. Sono pezzi straordinariamente ripetitivi persino per una band di rock’n’roll, che scorrono battuta dopo battuta impilando ossessivamente cubetti di quattro quarti ed assestandogli una manata di calce per passare alla strofa successiva senza esitazioni, senza dubbi, senza mettersi in discussione. Jagger ripete molestamente ora la sottomissione della ragazza che voleva far la preziosa (“Lei è sotto il mio alluce, ora conduco io”), ora l’insoddisfazione (“Non provo piacere”), ora la mancanza di riferimenti (“la guerra è a un tiro di schioppo”), ora che non si può aver tutto dalla vita, e così via. Si salgono e si scendono sempre gli stessi tre gradini, consumando gli stessi intervalli che risolvono sbrigativamente e via ripetere. Pochi, e tutti di Brian Jones, i suoni “altri”: ma Jones fu fatto fuori (forse era troppo fantasioso, chissà) e quel che rimane è il rock’n’roll. Pensate di andare avanti ancora per molto? Non ci poniamo il problema, era la loro risposta. E lo è tuttora.
Leggendo tra le rughe
In effetti, il film è il concerto degli Stones. Dopo tutto il casino – ampiamente pubblicizzato - fatto per averli e per mettergli il guinzaglio, Scorsese e la sua regia assolti pochi convenevoli scompaiono e ti lasciano da solo in mezzo al palco, lo sguardo incollato su Mick Jagger senza possibilità di staccarsi dai suoi scatti tetanici fino alla fine. Non è permesso guardare altrove, non ci si può fermare neanche un attimo ad ammirare questo teatro (fighissimo, cavoli), non è lecito volersi fare una pallida idea di che età possa avere il pubblico, di che commenti faccia la gente, niente altro che le faccione di Jagger, Richards, Wood, Watts (primi piani concessi in ordine rigorosamente gerarchico, dalla primadonna al batterista con problemi di comunicazione, che ha l’unico compito di stare lì dietro a manovrare quella misteriosa roba che è la batteria. Già, come funziona una batteria? Raramente ci è dato saperlo, al cinema). Una nota positiva: chi temeva di sentire i beneamati brani di culto annegare in un tempo stracco e diluito li sentirà invece tirati al dovuto. Watts pista ancora, e gli altri gli stanno dietro, dio sia ringraziato. Altra nota positiva, il concerto prende abbastanza presto una piega soul inattesa; ci sono i fiati ed il loro fraseggio salva qualche pecca di Richards, che sembra continuamente voler virare verso la sporcizia, curvo sulla chitarra come se gli avessero passato al volo una motosega accesa fuori controllo. Per fortuna che c’è Wood, che è ancora preciso e sa stare al suo posto. Jumpin’ Jack Flash parte un po’ incerta ma nel casino generale la voce di Jagger, che non si è ancora riscaldata, prende quota quasi subito. Che gran pezzo, ci si scopre a pensare, anche questo per fortuna abbastanza veloce e asciutto, ché in alcune versioni se ne sente troppo il lato blues a scapito di quella tinta metallica scintillante che è la sua benedizione. La scaletta scorre senza intoppi, passando per la comparsata di Jack White in Loving Cup (Jagger se lo mangia), quella di Buddy Guy in Champagne and Reefer (nero mangia bianco in mezza mossa), ed infine la Aguilera in Live With Me (Tina Turner ci manca molto). Proprio quando si cominciava a boccheggiare, a controllare l’ora ed a formulare pensieri del tipo “Chissà quanto prende in euro un addetto allo stage dei Rolling Stones?” arriva Sympathy for the Devil, con tutti gli oohh oohh e gli yeah yeah regolamentari, ammantata di luci rosse ed atmosfera sfegatata. Il concerto si chiude virtualmente con Satisfaction, quindi di fatto con una soggettiva di Jagger che lascia lo stage ed esce all’aperto (ah, sì, c’era Scorsese a dirigere le riprese). Fine. Tirando le somme: oltre a ciò che sapevamo abbiamo qualche siparietto (Richards con la consueta aria da chissenefrega-di-tutto motteggia con il pubblico, se quattro frasi smozzicate possono essere definite motteggiare), una manciata di interviste vintage in cui gli Stones fanno i modesti e prendono le distanze da tutto tranne che da se stessi, una introduzione con i Clinton che vengono a stringere la mano a Jagger e compagni con annessa foto di gruppo rituale. D’altro canto, dall’alto di quelle rughe molti decenni di rock ti guardano. L’impressione in effetti è di aver visto la Sfinge suonare una Stratocaster o di essere stati costretti a fissare per più di un’ora tre volti di cuoio cucito a mano (Watts si salva, lui con quell’aria furba e giallastra somiglia più ad un abitante di Springfield) che fanno il loro porco lavoro. Un lavoro al quale sono abituati e che, per loro fortuna, gli piace ancora abbastanza da volersi sobbarcare un film con questo scassa di regista famoso che si è innamorato della loro musica come un qualsiasi fan. Come se si potesse rivelare la natura del rock con tutte quelle macchine da presa. Bah. Un 7 pieno andrebbe agli Stones, per l’impegno e l’energia ma soprattutto per la pazienza con cui hanno tollerato tutto questo can can. Quanto al film, trattasi di esperienza assolutamente diafana e dimenticabile.
Serena Capri