TRAMA
I due detective Turk e Rooster sono sulle tracce di un serial killer che uccide malviventi impuniti e lascia sul luogo delo delitto poesie che dovrebbero spiegare i perché e i percome delle “esecuzioni”. Non molto originale, è vero, ma – attenzione! – è un film con i due noti attori Robert De Niro e Al Pacino._
RECENSIONI
La sostituzione del sostantivo film con operazione è forse un po' abusata ma in questo caso è difficile farne a meno: Righteous Kill - Sfida senza regole[1] ha la sua unica ragion d'essere nella presenza dei due mostri sacri, icone attoriali (aggiungere altre bolse definizioni a piacere) De Niro e Pacino[2]. Il che ne fa, quasi tecnicamente, un'operazione. Avnet si mette diligentemente 'al servizio' e fa di tutto per non farsi notare, preoccupandosi solo, cronometro alla mano, di equidistribuire le inquadrature tra i due (per non sbagliare, li fa coesistere sullo schermo la maggior parte del tempo e dedica loro un sacco di simmetrici split screen). Ma Al e Bob come la prendono? Con poca convinzione, sembrerebbe. Mal serviti da una sceneggiatura che non esiterem(m)o a definire pessima, fanno quello che ci si aspetta da Pacino e De Niro: l'uno gigioneggia con garbo, l'altro sottrae con stile, entrambi al minimo sindacale. Il problema infatti è che Pacino sembra un suo, pur ottimo, imitatore mentre De Niro crede di poter farla franca storcendo semplicemente la bocca. Non abbiamo santi da pregare e non ce ne rammarichiamo più di tanto, ma insomma lo spettacolo è vagamente triste e arriva a lambire i territori del patetico quando sceneggiatura e regia sembrano ignorare il fattore età: che ci fa De Niro coinvolto in una storia di sesso selvaggio con Carla Gugino? E che ci fa, sempre De Niro, costretto in inseguimenti nei quali sfoggia uno stile di corsa da grande invalido? E fin qui si è parlato dell'operazione. Volendolo invece considerarlo un semplice film, Righteous Kill ha comunque le sembianze di un poliziesco paratelevisivo in senso deteriore (Gewirtz era tra gli sceneggiatori di Blind Justice) la cui struttura narrativa dovrebbe reggersi su un colpo di scena (pre)finale che non stupisce nessuno: la confessione in prima persona di Turk, che scandisce a suon di flashback la progressione drammatica, palesa da subito la sua 'falsità' allorquando si constata che i flashback stessi escludono il serial killer dall'inquadratura. Da lì a pensare che l'apparente reo (De Niro) confessa in realtà per l'altro (Pacino) il passo è brevissimo e automatico (ah, il peso delloperazione che si rifà vivo), né Gewirtz/Avnet riescono a insinuarci qualche dubbio quando buttano lì alla meno peggio l'ipotesi che l'assassina potrebbe essere la Gugino. Come no. Della regia invisibile si è già detto, la recensione può anche finire qui, con due parole sul cast di contorno che è proprio di contorno [3].
[1] Abbiamo finito le parole per 'commentare' le traduzioni italiane dei titoli originali ma ci rifaremo vivi presto con qualche neologismo dispregiativo. Promesso.
[2] Voi mi perdonerete (o mi ringrazierete?) se non vi tedio con la solita storiella de Il Padrino: Parte II e Heat ma sono convinto che questa notucola sia più che sufficiente per capirci.
[3] Le due note precedenti sono, in effetti, del tutto inutili. Ci piace pensarle come un umile ma sentito omaggio alla memoria di David Foster Wallace.
La pochezza di un’opera come Sfida senza regole per la sua reiteratamente debole struttura cinematografica, per la sua abusatamente semplice confezione narrativa (a tutt’altra idea di solidità strutturale si era affidato Russell Gewirtz nell’Inside Man spikeleeiano), per le sue ristrettezze stilistiche che lo fanno assomigliare a un b-movie (non, si badi, film di serie b) suo malgrado, paradossalmente (ma anche no) è generatrice di insospettabili derive paratestuali. Operazione anzitutto commerciale, come del resto tautologicamente tutto il cinema mainstream, adagiata sul doppio desiderio di puntare sull’eccesso divistico da una parte, in un territrorio “starsistemico” sempre più orfano di “dei”, nella sacra foresta disboscata di simboli del divismo più conclamato (Hol(l)y(/)Wood), e di veder convivere finalmente non solo nello stesso film ma nella medesima inquadratura la diade più celebre del firmamento attoriale, De Niro Pacino, da parte di un pubblico sempre più affamato di “mostruosità”, di ibridazioni (im)possibili, di stravaganze del casting.
Righteous Kill diventa per noi Sfida senza regole perché l’evenienza semantica della sfida è ciò che un’operazione cinematografica del genere deve principalmente richiamare, soprattutto nello spettatore italiano innamorato da sempre dei due archetipi del divo hollywoodiano contemporaneo, nello stesso identico modo per il quale Heat più di un decennio fa recava La sfida come suo sottotitolo. E tuttavia, come già succedeva distintamente nell’orrendo Scent of a Woman e, dall’altra sponda, in decine di film deniriani, Pacino pacineggia e De Niro sembra più interessato a concentrarsi sulle ingombranti performance di un corpo senile ecceduto, cosicché la sfida non si accende mai nonostante la quasi totale condivisione di ogni fotogramma. E questo nonostante, ancora una volta, l’immaginario che queste due divine macchine attoriali abbiano saputo generare e trascinarsi dietro di sé nel tempo. La quasi totale assenza di epos (ripensiamo per antifrasi inevitabilmente a Heat) coincide con una quasi designificazione attoriale, in questo “noiretto” da prima serata tv: le inquadrature costantemente ingombrate dai corpi e dai volti dei due protagonisti senz’anima di questo cinema senza aperture diegetiche, senza fughe testuali, e senza il coraggio dell’eccentricità decretano la sconfitta estetica della regola del “centrismo senza forza” di una messa in rappresentazione senza presentificazione di autentiche figure del dramma rappresentato, di un’inerzia della visione accentrata su un’immagine senza storia che spera in una salvifica rievocazione di quel tanto altro cinema che non è più e che dunque non può soccorrere, divenendo vuoto epicentro di un voir sans récit.