TRAMA
Sette fratelli, rudi taglialegna, sono alla disperata ricerca di donne da sposare. Il maggiore ne trova una e se la sposa il giorno stesso in città, gli altri fanno quello che fecero i romani con le Sabine…
RECENSIONI
Ci sono due tipi di musical hollywoodiani: quelli che si limitano a musicare zuccherose storielle d’amore, divertenti ed innocue, e quelli che, profittando della sostanziale artificiosità e teatralità del genere, imbastiscono una storia prevedibile e lineare e la usano come puro pretesto per riflessioni sul mezzo cinematografico e sull’arte in generale. Alla seconda categoria appartengono straordinari film autoriflessivi, saggi di estetica nascosti dietro la maschera dell’entertainment, quali ad esempio “Cantando sotto la pioggia” (capolavoro) sempre di Donen, “Il pirata” (capolavoro) e “Spettacolo di varietà” di Minnelli, “E’ nata una stella” (capolavoro) di Cukor ; nella prima rientrano, tra gli altri, “My fair lady” di Cukor, “Gigi” di Mannelli e questo “Sette spose per sette fratelli” di Donen. Proprio come Minnelli e Cukor, Donen ha giocato con entrambe le tipologie dando il meglio di sé, come i suoi due colleghi, nel musical autoriflessivo. Come non ricordare gli astratti siparietti con scenografie di cartapesta di “Un americano a Parigi” o del succitato “Cantando sotto la pioggia”? In quei casi il regista chiedeva allo spettatore una duplice “sospensione dell’incredulità” visto che l’esibizione insistita dell’artificio e della fictio, la negazione di ogni “realismo”, il rinvio costante all’ “altrove” (il dietro le quinte e il dietro la macchina da presa), imponevano allo spettatore un passo ulteriore, una maggiore apertura nei confronti dell’Altro assoluto ovvero dell’arte. Musicato da Gene DePaul e Johnny Mercer, questo film minore, ma di straordinario successo, di Donen ci regala momenti di notevole fascino, grazie soprattutto alle belle coreografie di Michael Kidd filmate, per la prima volta in un musical, in Cinemascope. La cose migliore è il balletto “The Lonesome Polecat Lament”, ancor oggi godibilissimo nel suo uso “strumentale” di accette e pezzi di legno. Per il resto il regista, senza il fondamentale apporto del grande Gene Kelly, non sembra trovare nella storia spunti originali e si limita ad una direzione corretta ma anonima servito da un cast egualmente corretto ma anonimo. Ad una dose massiccia di “zucchero” (sentimentalismo) purtroppo non corrisponde un’adeguata e contraria dose di “acetum” (ironia). Non è un caso che Donen, autore intelligente e non semplice stipendiato, nonostante il successo di cassetta, sia ritornato a collaborare con Kelly nel dolce-amaro “E’ sempre bel tempo” l’anno successivo (1955). Da segnalare lo scriteriato doppiaggio italiano: pur non toccando le vette di sublime demenza di “Tutti insieme appassionatamente” (tutto veniva doppiato/distrutto, comprese, poveri noi, le canzoni), il contrasto tra “recitativo” doppiato e le parti cantate in originale e la scelta arbitraria di sottotitolare solo alcune canzoni (perché non tutte?) rendono vano ogni tentativo di “ascolto” rilassato. A rendere nervosa la “visione” contribuisce invece il solito taglio ai lati dello schermo. Prendere o lasciare, c’est la vie, c’est l’Italie…
