Senza Pietà

Barbera 2.1Primo capitolo dell’era Barbera II, la 69ma edizione del Festival di Venezia si è proposta come kermesse scissa tra la volontà di affermare una propria strada (meno film, più visibilità per i titoli) e una discontinuità rispetto al passato prossimo (il grande ritorno della cinefilia, meno attenzione alle star e decisamente maggiore per il film d’autore tout court, con corollari assai indicativi – le proposte in retrospettiva seguivano una logica quasi museale -) e quella di parare l’attacco frontale sferrato da Muller, che dirotta su Roma non solo una bella carrettata di registi (stanti i proclami), ma anche un indiscusso know-how che aveva fatto della manifestazione veneziana di questi anni un vero campo di sperimentazione, stimolante quanto, in molti casi, ardito._x000D_Il Festival inizia in sordina e sembra deludere nei primi giorni, ma decolla nella seconda parte, mostra alla fine un volto e un’identità, sfoderando un Concorso che si rivelerà aperto, a ragion veduta, non solo a una visione teorica di cinema, ma anche agli umori e agli orientamenti contemporanei, senza barriere aprioristiche. Un Festival che, scevro dall’ossessione del tappeto rosso, costringe la stampa, nella maggior parte dei casi, a parlare di cinema. Non è cosa da poco. _x000D_
Il Concorso, finestra sullo stato delle coseCosì, a un mese di distanza, il Concorso si conferma una finestra sullo stato delle cose: ci sono le maniere sublimi di Malick, De Palma e Kitano, con opere estreme per i quali si dovrebbero aprire discorsi abissali sul rapporto tra autore e pubblico oggi (in dialogo con le forme cristallizzate del nuovo Coppola, di Von Trier, di Greenaway, di Almodovar); ci sono film come Spring Breakers e La cinquiéme saison, che si discostano dalla medietà autoriale, la prima cibandosi con voracità mai sazia dell’immaginario contemporaneo deteriore, la seconda facendosi specchio formalista, tra la vocazione del documentario e la palude del tableau vivant, di quella nuova etnografia ucronica (da Ben Rivers in giù) che cesella nuovi mondi, altri e antichi, e sempre nuove, qui orrorifiche, apocalissi; c’è un capolavoro insindacabile (The Master) e c’è tutto quel cinema che t’aspetti e che vuoi vedere, amare o detestare. Dalle estetizzazioni teatrali, mediamente assurde, ovviamente mélo e glaciali di Betrayal al dispositivo tanto sadico quanto umanista dell’imprescindibile Seidl (minore, come in ogni sua opera di fiction, e sempre comunque maggiore). Dall’affresco storico (che sa farsi riflessione bruciante sul ruolo dell’Arte) di Après Mai all’affresco storico (e stop) di Linhas de Wellington. E ancora: sperimentazioni global tra l’immersione etnografica del cinema del reale e il decoupage sommerso del_x000D_cinema americano (Thy Womb); il ritorno del grottesco da commedia all’italiana di E’ stato il figlio, il palinsesto antimassmediale di Bella addormentata, la scommessa di Fill the void, saggio sociologico in forme coerenti di dramma (fin troppo) compito, il lavoro sul paesaggio (e sul sogno e sul corpo) americano (il comunque deludente At any price), sino ai debolissimi Superstar (parentesi da francesisti: dove sono Camille Claudel di Dumont e Dans la maison di Ozon? Perché non mettere in Concorso la gemma/commedia di Bonitzer?) e Un giorno speciale. E poi il Leoned’Oro, Pietà, con la sua etichetta di oggetto da festival, la sua prevedibile commistione di genere e ossessione d’autore, con le sue ellissi e i suoi kyrie eleyson programmati per l’intellighenzia (a bilanciare i cenni di barbarie), i suoi temi perfettamente adeguati all’agenda della contemporaneità (il capitalismo e la speculazione, l’enigma della maternità, vero e proprio assillo del cinema d’oggi) talvolta in forme implicite, ma squadernate con puntualità – e pubblicamente – dal regista (quasi a preoccuparsi che non si cogliesse il lavoro svolto sull’attualità) . Sì, ci sono i temi giusti, a Venezia: la caduta del tardocapitalismo, la religione e i suoi estremi, il rapporto kafkiano tra uomo e media, le forme deformi del residuo famiglia.
ItalianiRiguardo poi al nostro orticello cambiano i tempi, cambiano i direttori, ma è evidente che certe logiche non cambiano e che sono talmente radicate da prescindere dal management. Non si spiegherebbe altrimenti l’ennesima presenza fuori dalla competizione di film italiani che l’avrebbero meritata e di film e di autori che sembrano vantare un diritto inalienabile ad accedervi. Steso il solito velo pietoso sulle polemiche sui mancati premi ai film italiani (il discorso lo si fa ogni anno, non è neanche più il caso di riproporre le motivazioni per le quali dietro queste lamentazioni c’è una visione provinciale, se non padronale di una kermesse che vuole essere – ed è ancora, per fortuna – internazionale), è il caso di riflettere però sui meccanismi di acceso al concorso: il cinema italiano forse si afferma all’estero (quest’anno contiamo un orso d’oro berlinese e un secondo premio a Cannes) perché gli altri festival selezionano le opere del nostro cinema secondo criteri diversi da quelli operati a Venezia, dove non esistono quote Italia, ma solo quote di scuderia. L’intervallo e La città ideale sono titoli che chiedevano il Concorso.
_x000D_Va letto, peraltro, come dato positivo la scomparsa di Controcampo Italiano, sezione-ghetto frutto delle pressioni, mai vero polso della situazione nostrana, men che meno territorio di ricerca.
All’orizzonteRimane anche da dirimere la questione della sezione Orizzonti (e il ricordo è rivolto alla sezione Nuovi Territori, che caratterizzò l’ultima, ricchissima selezione curata da Barbera I, correva l’anno 2000) stante la difficoltà a distinguersi dal concorso se non per il fatto che questo propende in maniera più spiccata per opere di finzione, con narrazioni canoniche, essendosi persa quella sana, anche incosciente a volte, propensione a distinguerle anche per la scelta dei linguaggi, dei formati, delle destinazioni. Quello a Wang Bing è un premio sacrosanto (che fa da evidente contraltare al premio pop di Tango libre), Leones è la vera sorpresa, storia di fantasmi borgesiani, come un Van Sant ripiegato, collassato, etereo.
Giurie e verdettiSì, perché un Festival è fatto anche di verdetti e giurie, dato che emerge sempre e solo alla resa dei conti, e imprevedibile sulla carta. Fatto notare che i primi premi delle due sezioni principali vanno a film orientali (uno dei ritornelli più fastidiosi degli scorsi anni riguardava la presunta egemonia asiatica delle competizioni marca Muller) il verdetto del Concorso di quest’anno getta sgomento per piacioneria, totale assenza di coraggio, miopia generalizzata. Se è vero che Mann avrebbe voluto vincesse The Master, è assurdo che il premio unanime agli attori abbia avuto il sopravvento e abbia dovuto indirizzare altrove il Leone d’Oro, stante anche il fatto che il film di Anderson si porta comunque a casa due premi maggiori (regia e Coppa Volpi). E’ deprimente che la regola di non poter abbinare il Leone d’oro ad altri premi faccia alla fine prevalere (e non è la prima volta) un film meno importante, che il riconoscimento finale sia sempre il frutto avvelenato di una soluzione di compromesso. Pasticciaccio brutto: per Kim Ki-duk e il suo cinema è solo un alloro tardivo, quello per un’opera che media e smussa il furore radicale del suo primo periodo e la sfacciataggine simbolista del secondo (pre Arirang). Il premio alla sceneggiatura di Après Mai, cinema intuitivo prima che scritto, è un semplice dolcificante, quello a Fabrizio Falco il pegno da pagare al cinema italiano. Amen: ci si consola con Seidl, ma non è questo a turbare.
La criticaSe il fatto che Pietà si sia aggiudicato il premio del pubblico è comprensibile (rimandiamo alla voce: piacioneria), è allarmante la sua vittoria al Mouse d’Oro, il premio delle testate online: si consacra così l’assenza di una critica, in Italia, capace di cogliere le tendenze del cinema contemporaneo, di vedere vie di fuga nell’impasse seriale intellettuale, di promuovere un’evoluzione nel linguaggio, di cogliere le forme del tempo presente. Pietà può anche vincere il Leone, ma che la critica non istituzionale si faccia copia conforme del senso comune e elevi quello di Kim a miglior film del Festival, è quantomeno inquietante: si possono disdegnare i film che si gonfiano di post-modernità per farla implodere/esplodere, le concrezioni astratte di De Palma, la riduzione di Kitano ad artista pop concettuale, si può odiare il cinema lirico, sfacciato, immerso nelle Grandi Questioni di Malick, si può sottovalutare The Master, ma non si possono non certificare i movimenti interni, i piccoli terremoti linguistici, la ricerca (ecco: la ricerca) di opere come La cinquiéme saison, Thy Womb e, soprattutto, Spring Breakers. Che sono film che mettono in discussione, mentre Pietà, semplicemente, che piaccia o meno, conferma, opera perfetta di accomodante gusto esotico borghese, ripetizione, bigino di una poetica già conosciuta. Se la critica web è unanime al coro d’approvazione generale, chi resta a guardare all’oggi, alle tendenze che smuovono la medietà, ai margini che illuminano il presente?