Biografico, Recensione

SELMA

Titolo OriginaleSelma
NazioneU.S.A.
Anno Produzione2014
Durata127'
Sceneggiatura
Fotografia
Scenografia

TRAMA

La primavera del 1965 si rivela decisiva per l’ottenimento del diritto di voto da parte dei cittadini afroamericani. A guidarli in tre coraggiose marce di protesta pacifica, da Selma a Montgomery, in Alabama, il carismatico e abile stratega politico Martin Luther King.

RECENSIONI

Mancava un film su Martin Luther King. A coprire la lacuna ci pensa Ava DuVernay, che con Middle of Nowhere ha vinto il premio per la regia al Sundance 2012. L'approccio non cerca la strada del biopic, ma si sofferma su un momento strategico nella vita del leader dei diritti civili, quello dell'organizzazione delle marce da Selma a Montgomery svoltesi nel 1965, fondamentali per supportare la causa del diritto di voto per gli afroamericani. Un periodo storico cruciale che la DuVernay affronta di petto, senza lasciarsi troppo intimorire dal peso della Storia. La diligente sceneggiatura di Paul Webb diventa un film altrettanto diligente. Gli eventi narrati sono talmente potenti e straordinari che una messa in scena lineare è già sufficiente a renderli avvincenti e ad appassionare. Anche se il santino è dietro l’angolo, si apprezza lo sforzo di uscire dall’agiografia per riportare l’uomo sulla terra, con le sue debolezze (i dubbi, i ripensamenti), la quotidianità (anche  Martin Luther King vuotava la spazzatura) e  le pulsioni (con la bella moglie non erano tutte rose e fiori). Così come è tutto sommato riuscito il tentativo di analizzare i giochi di potere pianificati dietro le quinte, provando a dare voce ai tanti confronti fuori scena di cui il percorso delle conquiste politiche è inevitabilmente costellato.

Anche le interpretazioni, soprattutto David Oyelowo nel ruolo di King (incredibile la somiglianza) e Tom Wilkinson in quello del presidente Lyndon B. Johnson, sono tra i punti di forza del film. Ciò che manca, e che avrebbe probabilmente reso l’opera più di una mera cronaca di eventi tesa al celebrativo, è un punto di vista meno scontato, più ricco di conflitti, più dentro ai fatti, alle zone d’ombra, in grado anche di sporcarsi le mani. La DuVernay in questo senso sceglie la strada più facile, quella dell’indignazione per una ingiustizia palese, e crea contrapposizioni piuttosto basiche tra i buoni “neri” (volenterosi, solidali, sempre vestiti bene, animati di ottimi propositi, resistenti a tutto) e i cattivi “bianchi” (brutti, spregevoli, ignoranti e inetti), senza che alcuna sfumatura abbia modo di incrinare un quadro che tende all’ovvio. Non si hanno mai dubbi sui personaggi e sul loro agire, mai un guizzo che lasci intendere qualcosa al di fuori di una schematica e didascalica successione di fatti, mai un qualcosa che si possa dedurre senza che venga declamato o spiegato. Poi, forse, è inevitabile, quando le ingiustizie sono talmente forti, il carisma delle personalità messe in scena così grande e le ripercussioni sulla Storia di tale rilevanza. Uno sguardo altrettanto rispettoso ma più problematico, capace di colpire non solo la pancia ma anche la testa, avrebbe però garantito più agganci con il presente e il perdurare della rabbia anche oltre la visione. Ma forse è chiedere troppo a un film che si prefigge, riuscendoci, di indagare l’operato di uno dei massimi leader mondiali garantendo soprattutto un solido intrattenimento.

Prima afroamericana a vincere il premio per la regia al Sundance con Middle of Nowhere (da cui ripesca l’interprete David Oyelowo, qui in ottima prova mimetica), Ava DuVernay, con genitore originario dell’Alabama, raccoglie la sfida di raccontare gli infausti eventi di Selma, impegnandosi, non accreditata, a riscrivere una sceneggiatura in cui non aveva i diritti sui discorsi del reverendo Martin Luther King (in possesso di un altro studio di produzione). Mette al servizio dell’opera il suo tirocinio nel cinema documentario e, forte di ciò, riesce ad accendere gli animi con le dinamiche della marcia, non perdendo un grammo di credibilità di fronte alle immagini di repertorio che, ad un certo punto, inserisce. Se evita le maglie strette del film biografico, è però schematica nell’evocare sia il martire roso dai dubbi come il cristo prima della crocefissione, sia le premonizioni di morte, come se il protagonista ne fosse cosciente (il film, però, finisce prima del suo assassinio). È programmatico anche far recitare ai personaggi battute poco verosimili e figlie del senno-di-poi (come il presidente, che afferma di non voler essere ricordato per l’inanità). Il resto del film è esemplare, si potrebbe definire “emotivamente documentaristico” nel modo in cui entra nel privato del personaggio ed esce per abbracciarne la giusta causa, commuovendo quando, all’appello di King, rispondono tutte le razze e religioni, accompagnandolo su quel ponte maledetto. Carmen Ejogo è la seconda volta che interpreta la moglie di King, dopo Boycott.