TRAMA
Una giovane donna viene dimessa da una clinica psichiatrica in occasione del matrimonio della sorella. Rientrata in famiglia, cerca lavoro come segretaria presso lo studio di un avvocato. Il nuovo impiego si rivelerà inaspettatamente stimolante per entrambi.
RECENSIONI
La piccola autolesionista Lee Hollo(w)way esce dalla clinica per affrontare il matrimonio “a norma” della biondissima sorella, vuota, innamorata e vorace. La madre, cosciente del problema della figlia, la soffoca di attenzioni inutili e deleterie. Il padre, alcolista, oscilla fra la costante perdizione e i tentativi di riabilitazione. La (a)normalità dell’ambiente circostante viene interiorizzata da Lee, che si divide come il padre fra i tentativi di reprimere la propria natura e quelli di accettarla. L’occasione per ricomporre questa dicotomia le si presenta sotto forma di un impiego come segretaria/dattilografa nello studio legale del solitario avvocato E. Edward Gray (James Spader). Elettro Encefalo-Gramma si presenta inizialmente piatto, turbato dall’abbandono di una donna/domina anch’essa biondissima dal cui ricordo cerca di sfuggire attraverso l’esercizio fisico. Ecco che le segretarie diventano soggetti su cui poter esercitare, con mano sempre più pesante, il potere del datore di lavoro, dell’uomo, del fallo. Contrariamente alle sue aspettative però, la piccola Lee non lo abbandona nemmeno quando le sue richieste cominciano a rasentare il compulsivo. Anzi, per la sottomessa dattilografa il rapporto inizia a mutare in qualcosa di intrigante, i confini fra sessualità e professionalità di confondono e i due si trascinano a vicenda sempre più a fondo nei loro giochi di potere. Lee cessa di essere autolesionista e richiede l’intervento sadico dell’avvocato, che la scruta da dietro la sua scrivania di legno scuro con i suoi occhi sporgenti e indecifrabili. Ma EEG comincia ad essere turbato dalla loro relazione e cerca di uscirne, spingendo la segretaria a tentare la strada della obbediente ribellione per conquistare definitivamente il suo cuore.
Steven Shainberg vince il Sundance trattando un tema che molti prima di lui avevano più o meno efficacemente investigato. Uno su tutti, David Cronemberg aveva impiegato proprio lo stesso James Spader – sempre uguale/fedele a se stesso – per solcare la sottile linea fra piacere e dolore in Crash. I suoi bug eyes vitrei e sofferenti questa volta esplorano le piccole e ben nascoste cicatrici della dattilografa, la quale gradualmente lo trascina in un vortice di perversione che lo costringe ad infliggerle crescenti sevizie. Le derive della sessualità umana sono dei nuclei tematici che possono produrre grande cinema o clamorosi scivoloni: Shainberg oscilla costantemente fra i due, proponendo sequenze dalla tensione erotica elevatissima e fotografandole con una delicatezza che non si sofferma su dettagli scontati o clichè patinati, ma anche situazioni al limite del grottesco che fanno precipitare l’attenzione dello spettatore ben al di sotto della soglia di minimo interesse. Ad ogni modo, siamo ben lontani dalle pruriginose serial killer/ballerine di Paul Verhoven. Secretary ci porta nell’interregno fra erotismo e commedia, sospesi fra un sorriso e un’erezione, fra la voglia di lasciarsi andare ad un commento che distrugga la credibilità del film e quella di andare a casa a sculacciare la/il propria/o compagna/o.
Lei e' una ragazza con problemi psicologici che sfoga il suo disagio esistenziale nell'autolesionismo. Lui e' un uomo solo e solitario per cui il dominio diventa l'unica via possibile alla comunicazione degli affetti. La complementarita' dei loro problemi crea i presupposti per una coppia affiatata e complice. Vincitore del premio della Giuria al Sundance, "Secretary" e' una commedia divertente (ma non troppo) che rovescia le convenzioni della coppietta borghese. Le romaticherie del corteggiamento vengono infatti sostituite da un percorso iniziatico in cui la consapevolezza delle pulsioni riesce a trovare uno spazio comune in cui potersi esprimere senza essere giudicata. Nonostante le buone intenzioni, e la parziale originalita' del soggetto, il film di Steven Shainberg fatica a svincolarsi da una "piacioneria" di fondo, che smorza le tinte drammatiche e attenua gli spunti ironici. Il grottesco tende a prevalere e ad imporsi come cifra stilistica, finendo per colorire la vicenda di tocchi demenziali con un conseguente calo del coinvolgimento. L'aspetto meno convincente, oltre all'assenza di una vera e propria progressione narrativa, e' la caratterizzazione sopra le righe dei personaggi, quasi a voler tranquillizzare gli spettatori "Ehi, non preoccupatevi! E' solo una commedia!". Ecco quindi il fidanzato caratteriale (Jeremy Davies, come in "Solaris" costretto in un ruolo gesticolante), il padre ubriacone, la madre svagata e apprensiva, fino ai due protagonisti, ben interpretati, ma imbrigliati dalla sceneggiatura in svolte piu' inclini a conquistare il pubblico che a sviscerare la loro interiorita'. Gli aspetti piu' interessanti sono invece la padronanza del mezzo cinematografico da parte del regista, che riesce a sfruttare con un certo brio la ripetitivita' di ambienti e situazioni, due bravi protagonisti (un ritrovato James Spader e la spigliata Maggie Gyllenhaal) e alcune mezze tinte che affiorano dai dialoghi. Per il resto, la cornice "Sundance" sembra avere ormai creato uno stile omologato, fatto di soggetti in apparenza scomodi in salsa minimalista risolti tra risate sdrammatizzanti. Niente di spiacevole, ma piu' fumo che arrosto.
L’argomento preme al regista Steven Shainberg, che l’aveva già affrontato in un suo cortometraggio e che, nel film d’esordio (Hit Me), dichiarava già tutto il suo amore per la black comedy. Di successo al Sundance Film Festival (grazie a John Waters), è un La Pianista in rosa e con più ottimismo che funziona alla perfezione grazie ai due protagonisti, perfetti per un’accoppiata che fa scintille: James Spader è da sempre abbonato a ruoli anticonvenzionali, specie se sessuali; la rivelazione Maggie Gyllenhaal, invece, possiede quello sguardo colmo d’acume e divertita perversione che fa la differenza. Il talento di Shainberg s’esprime anche nell’iconografia con colori accesi e nelle scenografie ‘candite’ che hanno lo stesso mood del racconto, diviso fra grottesco e aderenza emotiva, irreali ma fino a un certo punto, come il corridoio della perdizione, quello che porta all’ufficio del boss, lungo e imponente se ripreso con grandangolo, atto a restituire il piacevole senso di sottomissione del servo con il padrone. Di commedie fintamente irriverenti, focalizzate sulla perversione più per riderne che per accettarla (in questo caso le pratiche sadomasochistiche, di cui il film è una sorta di trattato), è colma la cinematografia anglosassone: Shainberg sceglie come modello, invece, opere coraggiose come Harold e Maude, dove l’anomalia è abbracciata attraverso un bagaglio sentimentale riconoscibile, meglio se una storia d’amore. Tragedia in commedia o commedia con virate tragiche, trova la catarsi dalle brutture nell’innocente evasione, fortemente erotica senza bisogno di essere troppo esplicita, basandosi sugli sguardi di due bombe pronte a esplodere. Per portare in superficie le ferite interiori e guarirle, a ognuno sia data l’occasione di incontrarsi senza pregiudizi per vivere felici e sofferenti.
Che cosa distingue l’amore dalla perversione? L’amore, e nient’altro: le pratiche più stravaganti si rivelano dolcissime, se dettate dalla consapevole tenerezza reciproca. Una favola sulla carta nerissima, in realtà rosa sangue (shocking solo per benpensanti pruriginosi e femministe tarde), romantica, (ir)ridente, irresistibile, un melò classico travestito da commedia sofisticata, un autentico trip visivo di quasi due ore (lo studio legale come grotta delle meraviglie di gusto orientale, la tenera visione masturbatoria di Lee, la bellezza quasi metafisica del cibo “permesso”, la snervante attesa in abito nuziale), commovente per ritmo, misura, crudeltà e senso del magico. Si fa strada, deliziosamente perturbante, l’idea che la sola perversione possibile sia l’indifferenza (l’infelicità dei “normalissimi” genitori della protagonista). Maggie Gyllenhaal è una delizia, James Spader concilia charme e autoironia.
Le perversioni da multisala di Secretary possono andar bene per la falsa “indipendenza” del Sundance ma annoiano a morte chi agli scandali gentili e standardizzati preferisce un buon film svincolato dal “dovere” di turbare con grazia. Evidenti echi cronenberghiani conditi da un po’ d’ironia, una regia vagamente “elegante” e un’attrice in parte non fanno un buon film né salvano dal disinteresse totale e dallo sbadiglio convinto. Curiosa (ma poco coraggiosa) la svolta finale che trasforma Secretary in una commedia sentimentale in chiave surreal/sado-maso... come a dire:
-“abbiamo parlato con leggerezza e naturalezza di temi scomodi, ora siamo addirittura in grado di scherzarci su e di inserirli in un codificato impianto para-hollywoodiano, visto che bravi?”
- No.