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TRAMA
Copenaghen. Andreas è un detective che vive con la moglie Anna e il figlio neonato Alexander, nella loro casa sul lago. Tristan è un tossicodipendente che vive con la sua donna Sanne e il figlio neonato Sofus, in un degradato appartamento di periferia. Andreas in servizio è chiamato a bussare alla porta di Tristan, così i destini delle coppie (e dei figli) si incrociano.
RECENSIONI
«Alcune fiabe o i racconti morali non è un caso che siano spesso violenti», dice Susanne Bier. E un dramma radicale e intransigente Second Chance: un dramma aumentato, ingrandito e portato al parossismo. Dopo la commissione americana di Una folle passione, Bier torna in Danimarca, con lo sceneggiatore Anders Thomas Jensen, e riprende il processo di esagerazione del genere: Bier rende thriller il dramma. In barba allennesimo spaccato nero della società nordica, non cè realismo nella regista (e infatti si accosta alla fiaba), cè solo il genere drammatico passato alla lente di ingrandimento. Qui, come In un mondo migliore, tornano i doppi e i chiasmi dellintreccio, gli incroci pericolosi, i sospetti che spuntano dietro la facciata, i lapsus che squarciano il velo, i suggerimenti visivi enfatizzati ai lati della barricata, come la falsa madre che porge il seno al falso figlio, il quale piangendo lo respinge. Che lintreccio sia un pretesto lo insinuano le case delle coppie, subito percepite come due set contrapposti: da una parte la luccicante borghesia danese che vive in un teatro di posa evidenziato nei dettagli (gli stelloni, le luci bianche); dallaltra - uguale e contraria - la maschera junkie dei tossici, ancora più carica tra siringhe e degrado (e caricare è il verbo adatto a un meccanismo), con il coraggio di osare su cosa mostrare, perché leccesso della Bier prevede anche filmare un neonato imbrattato. Entrambe le case-pose sono come ti aspetti e dunque, a ogni particolare, suggeriscono implicitamente la loro essenza di finzione.
Lasservimento al genere si applica a tutti i personaggi, vedi la figura di Klaus che aspetta il suo spazio narrativo per intervenire: esempio della strategia di Bier e Jensen è linganno del finto colpo di scena che conduce a quello vero. Tristan e Sanne recitano il sequestro del figlio, un allestimento scoperto e inverosimile a cui nessuno crede, ma questo innesca il nesso causale allinterrogatorio svolta di Sanne che riconosce lo scambio di neonato. La regista semina indizi ottici, come Anna che si avvicina al lago, di volta in volta seguendo gli uni (il ruolo fatale dellacqua) e tralasciando gli altri (il rischio incombente sulla strada): così induce uno spiazzamento, sabota la posizione di chi guarda, lo dispone alla tragedia per poi negarla e prepararne di nuove. Piegando il contesto Danimarca al proprio obiettivo, come Submarino di Vinterberg, Second Chance non è racchiuso solo nel dilemma etico, che pure resta fulcro della trama (chi è la madre migliore? Cosa è giusto?) e lascia ambiguità disturbanti (senza la svolta medeica, Andreas avrebbe restituito il bambino?). Così come lultimo atto morale, ridare un figlio a una madre, serve per ottenere in cambio la seconda possibilità del titolo. Alla domanda di Sofus: «Ti sei perso?», la risposta interiore di Andreas è: No, mi sono ritrovato. La parabola si chiude, ma il cuore del film è un altro. E Andreas/Coster-Waldau che guida sconvolto nella notte, lasciando sospettare un possibile incidente: lo schianto non arriva, ma potrebbe accadere in qualsiasi momento. Questa imminenza, il muoversi sullorlo del baratro, la vicinanza alla tragedia, ovvero leventualità tragica insita nel fotogramma è la vera sostanza del cinema della regista. Sul filo tra riuscita e fallimento. Detestato da molti, una lezione su come si scrive e dirige un dramma nellunico modo che Susanne Bier conosce: urlandolo in ogni inquadratura.
