Drammatico, Sentimentale

SE LA STRADA POTESSE PARLARE

Titolo OriginaleIf Beale Street Could Talk
NazioneU.S.A.
Anno Produzione2018
Durata117'
Sceneggiatura
Tratto daSe la strada potesse parlare di James Baldwin
Fotografia

TRAMA

Anni Settanta, quartiere di Harlem, Manhattan. Uniti da sempre, la diciannovenne Tish e il fidanzato Alonzo, detto Fonny, sognano un futuro insieme. Quando Fonny viene arrestato per un crimine che non ha commesso Tish, che da poco ha scoperto di essere incinta, fa di tutto per scagionarlo.

RECENSIONI

LOVING

Barry Jenkins adatta If Beale Street Could Talk di James Baldwin («Il mio scrittore preferito»), già “spostato” a Marsiglia da Guédiguian in Al posto del cuore (1998), con i poveri marsigliesi bianchi invece della comunità nera ma nel rispetto della sostanza (lei è figlia di un portuale, lui un ragazzo nero adottato). Baldwin inoltre, nome chiave del pensiero black novecentesco, è stato appena portato davanti allo schermo da Raoul Peck in I am not your negro, documentario ispirato a un suo manoscritto incompiuto che diventa ricognizione trans-storica (e mediale) sull’etimologia, il concetto e il senso dell’essere negro.

Jenkins, dopo l’Oscar per Moonlight, aumenta il budget ma conferma la direzione del suo cinema, costituendo un dittico col film precedente. Se lì Chiron, nero gay nel ghetto di Miami, si trova rinchiuso in una gabbia simbolica, qui Fonny, giovane ad Harlem negli anni Settanta, oggettivizza quelle sbarre in un carcere vero secondo una metafora che è sempre la stessa: una prigione sociale e culturale. Ancora una volta dal contesto non si può evadere, anzi si viene segnati, e ancora per il regista c’è un solo modo per uscire dall’ingiusta condanna: attraverso l’inquadratura. Il racconto inizia con Fonny e Tish, i due giovani amanti, che vengono inquadrati dall’alto e accompagnati nella loro passeggiata sul fiume. Poi Tish resta in campo, la cinepresa estromette Fonny e solo dopo un controcampo concede il suo volto, quindi i due si ricongiungono nello stesso spazio: è la messa in immagine delle due voci presenti nel romanzo che, per Jenkins, sono separate ma “insieme”, prima vengono divise e dopo si ritrovano nella stessa inquadratura. Come nella storia. Il regista apre a due voci lo statuto visivo di Moonlight e subito mostra la costruzione del racconto, quasi la espone: per Fonny e Tish sarà un continuo unirsi/dividersi, unirsi nel flashback e dividersi nel presente, unirsi nelle visite in prigione e dividersi nel resto della vita. Una coppia spaccata da una falsa accusa, da un banale screzio razzista: per questo la perenne altalena tra vicino e lontano diviene politica, seppure resti sempre iscritta nell’architettura delle scene. La politica è già nell’immagine: nella negazione dell’intimità, nell’annuncio di gravidanza nel parlatorio di un carcere, nella tentata cancellazione del pathos che, però, non riesce. Tish e Fonny sorridono amabilmente e si toccano attraverso il vetro: la scena madre avviene, nonostante la gabbia.

Ecco allora insinuarsi una rottura, una linea che separa Se la strada potesse parlare da Moonlight: se lì la realizzazione di Chiron rischia di arrivare tardi, ovvero dopo una vita, qui è la certezza del sentimento ora, in vita, a sgretolare gradualmente le sbarre. Qui le figure si offrono spesso frontali, sfacciate, sembrano rivolgersi direttamente a noi in primo piano o voce off: i due sono sicuri di amarsi. Uniti fin da bambini, il sentimento tra Tish e Fonny è destino («We are flesh of each other’s flesh», dice Tish), sovradeterminato e fuori discussione: forse è proprio la pienezza del loro rapporto a spaventare la società intorno che sceglie di perseguitarli. E così emerge una doppia sostanza, da una parte la fragile ma ferma determinazione di Tish che tiene il bambino, dall’altra la paradossale serenità di Fonny in cattività, perché “protetto” dall’amore. Un amore che viene “inquadrato” nel senso più letterale, ovvero messo in quadro [1]. L’esposizione del sentimento è insistita, perfino prolissa, ripetitiva perché fatta di piccole reiterazioni (gli incontri in carcere, le scene in famiglia), ma non granitica bensì sfaccettata: significativa in tal senso è la figura della madre di Fonny che nel suo estremismo religioso apre un contrasto violento nei nuclei, comunque uniti a sostegno dei giovani, a cui fa da controcanto la seconda madre, quella di Tish interpretata da Regina King, che innesta il brano straziante del confronto con una terza madre, l’accusatrice. Perché è anche un film sulla cultura del sospetto: l’instabile testimone che accusa Fonny è stata convinta, non è sicura ma lei, portoricana presa in una guerra di minoranze, urla la sua posizione contro un facile capro espiatorio. A proposito delle voci nell’oggi, non è lontano Bright and High Circle, il discusso episodio cinque di The Romanoffs, con il maestro di piano omosessuale sospettato ingiustamente di abusi: altro giro, altro debole, altro capro.

[1] Nell’intervista a Marianna Cappi su Film Tv n.03/2019 il regista, citando Roma di Cuarón, spiega il senso del suo cinema che è sempre e soprattutto visivo: «In Roma ci sono sequenze non narrative, che sollecitano un’esperienza della coscienza. Ho tentato di ottenere un risultato del genere in Se la strada potesse parlare, nella scena in cui i personaggi guardano la scultura e poi lasciano l’inquadratura, mentre noi continuiamo a osservarla».

Se la strada potesse parlare è dunque il film che conferma Jenkins come cineasta dell’immagine, che ad essa si riferisce e su di essa lavora per raccontare le sue storie: identitarie, sentimentali e politiche, certo, ma sempre scritte nel luogo dell’inquadratura, in un continuo invito alla visione attiva e critica, perché non è dall’enunciazione della storia ma dalla lettura visiva che si accede all’essenza intima di ciò che si sta guardando (e fondamentale è la magnifica colonna sonora di Nicholas Britell che, come nel precedente, si adatta scientificamente al discorso del regista: ecco un grande compositore). Alla fine, nell’ultimo incontro carcerario, gli amanti sono ancora separati ma l’inquadratura passa fluidamente dall’una all’altro e si allarga in campo medio: le due voci sono ora diventate tre. Nella ripresa cristallizzata della famiglia c’è la contingenza di un’ingiustizia, ormai introiettata, ma anche una consapevolezza maggiore: quella di un legame, una nuova relazione trina, un sentimento che batte una violenza e lo fa sempre dentro l’immagine.