TRAMA
Le difficoltà affrontate dall’ostinata e integerrima Agnieszka Kowalska, operaia in un cantiere navale di Danzica, riflettono quanto accadde realmente ad Anna Walentynowicz, una delle figure più attive di Solidarnosc già dalla fine degli anni ’70.
RECENSIONI
Un’eroina targata Solidarnosc
Se si escludono forse la preziosa opera documentaria di Maria Zmarz - Koczanowicz, e poche altre eccezioni, ogniqualvolta il cinema polacco si è prestato in questi anni a rievocare direttamente o trasversalmente l’epopea di Solidarnosc, ha dato l’impressione di perdersi in un bicchier d’acqua. Tra il tono querulo e stantio di certe pellicole dirette da Zanussi, riferite all’oggi ma con evidenti richiami a quel passato di lotte, ed altri film che comunque suonano falsi per via della loro impronta apologetica, forzatamente retorica, è soprattutto a livello di fiction che la Polonia si è mostrata a corto di opere realmente incisive. Per raffigurare in modo più sincero e problematico quella pagina di Storia era probabilmente necessario che subentrasse uno sguardo esterno. Ed è così che sono andate le cose.
Volker Schlöndorff, la cui filmografia più recente gode, almeno in Italia, di una stima assai inferiore al suo reale valore, si è spesso lanciato nei suoi ultimi lavori di fiction in ardite allegorie, e in provocatorie rivisitazioni di periodi storicamente controversi. La follia nazista in The Ogre, gli anni di piombo in Die Stille nach dem Schuß (Il silenzio dopo lo sparo). Più di una volta critici di formazione cattolica si sono lanciati all’attacco, con criptiche allusioni ai presupposti laici della sua ricerca espressiva (si noti ad esempio il tono pretestuoso e sottilmente denigratorio delle recensioni di The Ogre pubblicate all’epoca su l’Avvenire, Famiglia Cristiana, e il Tempo); il che, dal nostro punto di vista, equivale ad ulteriore conferma della validità ravvisata, quasi per contrasto, nel sentiero intrapreso dal regista tedesco. Un sentiero fatto anche di rielaborazioni del soggetto tendenti al grottesco, slanci visionari, chiavi di lettura paradossali e scene codificate secondo formule rappresentative stranianti.
Strajk – Die Heldin von Danzig non ha forse la carica dirompente delle pellicole precedentemente citate, ma riesce comunque a scuotere le coscienze, esplorando non tanto il versante ideologico, quanto piuttosto il fattore umano delle esperienze di lotta politica e sindacale nei cantieri di Danzica. Ad un certo punto del racconto compare anche il baffuto Lech Walesa, ma estremamente significativa è la scelta di porre in primo piano una figura femminile, ispirata, attraverso la mediazione della biografia redatta da Sylke Rene Mayer, alla persona di Anna Walentynowicz. Donna energica e risoluta, il cui nome nel film diventa Agnieszka Kowalska, viene qui descritta come un’operaia modello che, già dalle prime inquadrature, mostra scarso interesse nei confronti delle onorificenze di partito, anteponendogli la soluzione dei problemi reali. Il carisma e la forza di volontà esibiti da Agnieszka nel rapporto con gli altri lavoratori, o con i rappresentanti di un’autorità che ben presto le si rivela ostile, si rispecchiano in una dimensione privata dalle molteplici sfaccettature, non immune da piccoli traumi e momenti di ripiegamento interiore. Notevole, poi, la scelta di Katharina Thalbach, attrice tedesca di grande esperienza e bravura, quale interprete principale. Anche grazie a questo salutare processo di umanizzazione della protagonista, il percorso narrativo del film acquista credibilità, rinunciando fortunatamente alla prospettiva di un banale santino celebrativo “made in Solidarnosc”, trasferendo invece una vicenda personale tanto complessa e sofferta in un quadro sociale concreto; un quadro che appare poi in continuo movimento, suggerendo a Schlöndorff come affrontare registicamente l’interpretazione di sviluppi drammatici, verso i quali si riscontra un’adesione emotiva mai superficiale. La maestria del cineasta tedesco si rivela, in principio, nel montaggio delle scene di lavoro, con il cantiere che si mette in moto sotto la guida di un accompagnamento musicale ritmato dai bassi e da sonorità metalliche. Ma quando successivamente viene ripreso l’incidente, in cui alcuni colleghi di Agnieszka perdono la vita, il ritmo delle inquadrature si fa stranamente più disteso, congelando la tensione in attimi di incredulità, ai quali la colonna sonora risponde con musicalità diverse, quasi ipnotiche. Il punto di vista dello spettatore trova così un inaspettato punto di contatto con l’angoscia della protagonista, confinata in una gru al momento del disastro, e costretta perciò ad intervenire con esasperante lentezza. Un altro esempio, se vogliamo, di quel tocco straniante che spesso caratterizza la regia di Volker Schlöndorff.
Stefano Coccia