Horror, Proibiti

SCHRAMM

TRAMA

Lothar Schramm sta imbiancando le mura del suo appartamento imbrattate di sangue per un omicidio appena compiuto, ma la scala sulla quale è salito cede e lo fa cadere. Prima di esalare l’ultimo respiro rivivremo con lui gli ultimi avvenimenti della sua vita malata e tormentata.

RECENSIONI


La necrofilia  è un inno alla vita, ultimo appiglio, esibizionista, per esorcizzare la paura della morte.
Perché la morte domina tutto l’immaginario di Buttgereit, quasi si trattasse dell’unica via per  dare un senso all’esistenza umana, filtro (de)sensibilizzante a un mal de vivre che rivendica la propria espressione nella devianza più estrema. E’ indiscutibile il compiacimento, una vera e propria cancrena visiva sempre pronta a scioccare con le sue soluzioni che definire repulsive sarebbe un eufemismo. Questo però non esclude una lucida e consapevole poetica  della finzione, manierista e meta, attraverso cui il regista riversa sulla sua opera un distacco talmente imbevuto di sarcasmo da risultare ancora più inquietante.
E’ la totale normalizzazione delle perversione della violenza  che lascia spiazzati, l’osservare un mondo quotidiano, rigorosamente domestico, che rigurgita ai limiti della terapia la decomposizione psichica della società. Tutto risulta necessario, inevitabile, sottolineato da una colonna sonora (marchio di fabbrica dell’autore) che ridicolizza l’atto stesso dell’espressione del sé, utilizzando musiche da camera, motivi melò; un modo per innalzare, con sguardo beffardo, ma privo di giudizio, ciò che di più basso non possa esserci.
Cinema polemico, antiborghese che non lascia spazio, per un pessimismo che nega ai propri profili malati persino la gioia di un ricordo fuori dall’incubo, sempre risalente all’istituzione per eccellenza: la famiglia.
Se in Nekromantik il montaggio ejzenstejniano tra l’erotica autopsia di un cadavere e il ricordo infantile dello scuoiamento di un coniglio pone le basi per un trauma originario, in Schramm il serial killer sembra avere un’oasi protetta, un ricordo di una compagna di giochi, forse una prima cotta, che lo riporta a un periodo pre-degenerativo.
Nekromantik e Schramm formano il dittico giusto per entrare nell’opera del regista e constatarne anche un’evoluzione non da poco che, pur rimanendo sempre in linea con i temi a lui più cari, vede un corposo cambio di direzione, si allontana dalla pornografia della morte del primo, imbevuta di fluidi organici e carne marcia, per entrare dentro le allucinazioni mentali del secondo. Espressione vs Repressione.
A conti fatti l’essenza rimane la stessa, quella di un’iconografia della devianza che si pone come emblema dell’umanità intera, modalità distorta e paradossalmente familiare attraverso la quale Buttgereit dissotterra gli scheletri più bui del nostro animo.


Schramm muore nel tentativo di pulire le tracce del suo massacro, dell’espressione delle sue pulsioni più profonde, della sua Opera d’Arte. E’ il caso a tradirlo: un semplice piolo gli regala quella fine che, tra comportamenti compulsivi, allucinazioni autolesioniste e perversioni represse, è sempre stata ambita.
Esasperando il protagonista in un tormento continuo, Buttgereit mette in luce la sua idea ossessiva  e poco conciliante del Mondo, muove la macchina da presa in soluzioni discontinue e paranoiche, l’immaginazione di una mente malata incapace di sfuggire e scaricare la propria tensione (l’atto ridondante della corsa). Un lavoro di regia che si affida ad associazioni e rime interne, inceppa la linearità narrativa con derive visionarie, improvvise, manomette la veromiglianza seguendo le proiezioni di Lothar.  Esemplare è  il viaggio con la prostituta, durante il quale gli racconta la sua esperienza lavorativa, un po’ atipica, in una villa di persone altolocate: il dialogo scorre su un movimento a 360 gradi dell’auto, un looping che conferma quanto la realtà sia filtrata dalla prospettiva distorta del killer.
In un corpo dichiaratamente sano, atletico, funzionale, è la mente a fare da padrone, a formalizzare e a mettere in pratica un masochismo autoritario che cerchi di mantenere una normalità fin dal principio assente. Schramm tenta di rinnegare la sua malattia, si tormenta nelle visioni di una carne che si decompone, si sfalda, rifugge dal desiderio morboso di possedere la prostituta, vicina di casa, inchiodandosi il prepuzio al tavolo o scaricandosi su un moncone di un bambola gonfiabile.


Ad inquietare non è l’eccessiva violenza del particolare che assume connotati a dir poco esasperati (il flash persecutorio di una vagina animata e dentata), ma la totale mancanza di tensione, l’aspetto più tipico di un regista che mostra sì un disagio angosciante ed universale, ma lo svuota da ogni forma di intrattenimento.
Si tratta di patologia cinematografica e non può non tornare in mente un episodio di Der Todesking, dove l’omicidio spontaneo di una fidanzata rompicoglioni diventava naturale grazie alla visione di un Nazi Movie. L’immaginario/allucinazione è un mezzo di accettazione che frantuma le gabbie imposte dalla società, polemica estrema a un lato buio, problematico che,  ça va sans dire, è pessimisticamente scomodo. E Buttgereit ci gioca, sapendo che non si tratta tanto di un cinema prossimo alla terapia, ma piuttosto di un togliere la maschera a un perbenismo che nasconde, sempre ed inesorabilmente, il Male.
Il viaggio oltretomba di Schramm, artificiosamente espressionista, ci riconduce dritti verso quel ricordo che fino a quel momento era l’unico orizzonte liberatorio possibile.
Contraddicendoci subito, perché il primo passo dentro la sporcizia viene proprio da lì.