Sala, Thriller

SCAPPA

Titolo OriginaleGet Out
NazioneU.S.A.
Anno Produzione2017
Genere
Durata102'
Sceneggiatura
Fotografia
Montaggio
Scenografia

TRAMA

Chris e Rose sono fidanzati: il nero Chris va a casa della bianca Rose per conoscere i suoi genitori.

RECENSIONI

La recensione contiene spoiler

Get Out è la “sorpresa dell’anno”. Bisogna vedere se piacciono le sorprese.

Jordan Peele, attore comico noto soprattutto per la sketch comedy televisiva Key & Peele, scrive e dirige il suo esordio alla regia costruendo un film basato su un unico twist di fondo: il nero Chris incontra i genitori della fidanzata bianca e scopre che sono post-schiavisti, alla faccia dell'integrazione, o meglio attraverso l'ipnosi mista a un'operazione cerebrale utilizzano i corpi delle persone di colore (scelti in virtù del loro migliore 'corredo genetico') per farli abitare ai bianchi più difettosi. Da parte sua, Rose è l'amo che adesca i ragazzi e li attira in casa per presentare i suoi. Questo è quanto. Peele fa un passo avanti nel nuovo cinema black, quello che oggi a Hollywood miete elogi e ottiene Oscar: ciò che finora è stato cinematografizzato a sfondo storico/politico, qui diventa per la prima volta declinazione di genere. La scelta di registro, se da una parte confeziona un film che mancava (il thriller/horror sul razzismo 2017), dall’altra di rimando ristabilisce una dignità del genere in sé che, secondo tradizione, torna a rimestare direttamente nel contemporaneo. È il film stesso a indicare il tema con le sue imbeccate nascoste/esposte nella sceneggiatura («Avrei votato Obama per la terza volta se avessi potuto», dice il padre) e indurre così un dibattito sovrainterpretativo potenzialmente infinito (il dopo Obama, l'America di Trump, i vecchi e nuovi razzismi ecc.). Nelle intenzioni Peele guarda a un certo modo di fare horror, come la saga zombi di Romero o The Last House on the Left di Wes Craven (citati nel pressbook): «Ho parlato del Vietnam senza mai nominarlo», diceva Craven a proposito del film del 1972, e qui sta la profonda differenza concettuale con questo, dove il razzismo viene chiamato continuamente per nome.

Il punto è sempre il risultato. In Get Out, a partire dall'inizio, vediamo un teaser che mostra il ripetersi in loop della trappola: siamo nel quartiere residenziale americano, con le case a schiera e il disagio riposto dietro la superficie (se non fosse abusato si direbbe lynchiano), subito esplicitato nel dialogo del nero al telefono che spiega l'inquietudine andando così a depotenziarla. È il brano diegetico Run Rabbit Run, trovata semplice e diretta, che ammanta la ripresa di una vera scorrettezza, paragonando brutalmente l'agguato alla caccia al coniglio, accostamento tanto cinico quanto efficace che tornerà per cenni solo nel finale. A seguire Chris arriva nella casa degli Armitage: non sanno che è nero ma non c'è problema, non sono razzisti, assicura Rose. Dall'ingresso in poi parte un ambiguo scenario di doppi sensi visivi e affermazioni polisemiche (per esempio la 'muffa nera' che giace in cantina), in cui emerge nettamente il Peele autore comico: c'è consapevolezza che orrore e commedia sono antipodi che spesso si toccano. L'intreccio sfodera alcune idee seppure archetipiche, come gli strani domestici, e in generale mette il buonismo a confronto col 'cattivismo' della situazione, in un gioco di oscillazioni comportamentali paradossali: come due genitori che odiano il fumo ma sequestrano i neri. In più interviene il personaggio esplicitamente razzista del fratello a confondere le acque, perché esponendo il suo pensiero sembra esentarne gli altri, e invece si limita ad affermare esteriormente il non detto interiore collettivo. Il problema di base è che la sorpresa è intuibile dopo poche inquadrature: esaurito il twist, presto introiettato, il plot ha già detto tutto. È chiaramente voluto: il meccanismo prova a sostanziarsi non nel cosa succede, ma nel come Chris lo scopre. E appena il giovane cade in trappola il congegno procede automatico, con un vago dubbio non sufficiente a ravvivarlo (Rose è complice?), solida gestione di genere e discreto senso del ritmo: gli equivoci visivo-linguistici strappano un sorriso, ma ormai sappiamo tutto quello che volevamo/dovevamo sapere. L'atto dell'occupazione dei corpi, poi, suona come timido tentativo di giustificare la gratuità della storia: la nuova schiavitù dunque si compie per un motivo, chiarito dalla svolta sci-fi, ma resta l'impressione che fosse più disturbante se lasciata senza un perché. Tra esercitare il genere e suggerire il messaggio Peele resta sostanzialmente a metà e coltiva entrambi: la posizione strategica, alla lunga, finisce per non lasciare emergere con forza né l'uno né l'altro ma penalizzare tutti e due. Il grande tema viene sempre detto, il senso di genere non è abbastanza autonomo da camminare da solo.

Film di sceneggiatura come punto di forza e debolezza (il finale: l'amico arriva proprio al momento giusto), nel new horror americano Get Out è quello che più (mi) ricorda It Follows: simile la paranoia che si rivela giustificata, l'invito alla metafora esistenziale e/o politica, il manifestarsi dell'orrore nella quotidianità giovanile (lì una ragazza del college, qui una coppia di fidanzati). Ma, più che l'aspetto tematico, a essere affine è la sensazione e l'umore che evoca: però il film di David Robert Mitchell va più in profondità, tocca corde inconsce, semina un'angoscia che ti segue molto oltre il gioco di genere.

Alla fine Get Out è interessante, ma la sua reputazione forse un po' esagerata.

Confessiamolo: non siamo più preparati per oggetti come Get Out, per film che abbracciano le regole del genere di riferimento con cieca e sconsiderata fiducia. Ormai i thriller paranoici che siamo abituati a vedere hanno il sottotesto politico al settimo grado di lettura, l'autoironia all'ottavo, l'ammiccamento cinefilo al nono e l'allegoria metacinematografica al decimo. Ecco, Get Out fa tabula rasa e riporta tutto al grado zero, uniformando i piani di lettura ed esplicitando giudiziosamente ogni risvolto sociopolitico, cinefilo, ironico e metacinematografico con immutata elementarità. Il fatto è che, a differenza dei thriller con autoconsapevolezza ipertrofica, il film di Jordan Peele crede davvero nel genere frequentato senza deriderlo segretamente o sfruttarlo come banco di prova per esibire un'abilità formale. I pezzi di bravura non mancano, beninteso, ma alla resa dei conti si rivelano molto meno esibizionistici di quanto sembrino a tutta prima: il piano sequenza iniziale, col suo occultare l'identità del sequestratore, non rappresenta forse una dichiarazione d'intenti? Ciò che ci viene presentato come un virtuosismo piuttosto gratuito si rivelerà appartenere a una strategia funzionale all'economia narrativa, al mantenimento della tensione e, infine, alla ricomposizione indiziaria degli eventi. Si potrà obiettare ragionevolmente che il film tradisce un eccesso di calcolo e astuzia manipolatoria nei confronti dello spettatore, ma non si potrà rimproverargli altrettanto ragionevolmente di indulgere in artifici estetizzanti.

A questa elementarità estetica Get Out abbina un secondo elemento piuttosto indigesto per lo spettatore avvezzo allo sgargiante cinismo della postpostpostmodernità: l'anacronismo. Nonostante lo sfoggio di dispositivi tecnologici, il film mantiene un saldo rapporto con forme psicomagnetiche che di ipertecnologico hanno poco o nulla: l'ipnosi e la suggestione catodica. A tratti, più che in un film girato nel 2016, sembra addirittura di essere in un episodio a colori di Ai confini della realtà (non escludo che qualche spettatore poco avvertito ignori persino l'esistenza di questa storica serie televisiva americana degli anni '60, peraltro omaggiata nel 1983 dalla pellicola omonima). La sequenza in cui Chris viene preparato all'operazione neurochirurgica porta l'anacronismo al culmine: legato e piazzato di fronte a un televisore clamorosamente obsoleto (una console che richiama gli apparecchi della fine degli anni '50 e dei primi '60), è risvegliato e riaddormentato a comando dalla comparsa di filmati e immagini a bassa definizione che ricordano sia gli audiovisivi di quei decenni che le tecniche sperimentali di condizionamento allora in auge. In questo frangente siamo davvero proiettati all'indietro nel tempo, catapultati nell'epoca della cosiddetta "influenza televisiva": il condizionamento psichico ottenuto attraverso l'ipnosi viene disattivato e riattivato magneticamente dal tubo catodico. Pura paranoia anni '60.

La combinazione tra piena fiducia nel genere e anacronismo magnetico stabilisce un legame non soltanto con la già menzionata serie The Twilight Zone trasmessa dalla CBS, ma soprattutto con un dittico di pellicole degli anni '60 che, per quanto evidenti siano le affinità, la critica ha stranamente ignorato. Mi riferisco a due film girati da John Frankenheimer tra il 1962 e il 1966: Va' e uccidi (The Manchurian Candidate, 1962) e Operazione diabolica (Seconds, 1966). Si tratta di due film di enorme importanza nella cultura cinematografica americana degli anni '60 e non solo: il primo per l'aggressività visiva e per l'accidentale profezia dell'omicidio Kennedy; il secondo per la sperimentalità ottica e per l'apparizione di quella spregiudicatezza stilistica che caratterizzerà la gloriosa stagione della New Hollywood (si fa canonicamente iniziare la stagione neohollywoodiana con una pellicola dell'anno dopo, Il laureato, ma è mia convinzione che sia proprio Operazione diabolica a inaugurare il nuovo corso, quanto meno sotto il profilo estetico). Del primo, Get Out riecheggia la dinamica manipolatoria: alle tecniche di brainwashing e riattivazione del condizionamento psichico di Va' e uccidi (un solitario culminante nella comparsa della carta della regina di quadri) corrispondono, nel film di Peele, l'ipnosi e il suo addentellato sensoriale (i colpi del cucchiaino sulla tazza). Del secondo, invece, riproduce l'acquisizione di una nuova vita riservata a pochi privilegiati e pianificata da un'organizzazione segreta: alla rinascita di Seconds, titolo che suggerisce il carattere di replica migliorata della vita precedente tanto sotto il profilo estetico quanto sotto quello dei desideri irrealizzati (nella pellicola di Frankenheimer il grigio funzionario di banca interpretato da Randolph Scott diventa un pittore affermato incarnato da Rock Hudson, tanto per essere chiari), coincide, in Get Out, il tentativo di trapianto della coscienza da un corpo vecchio e menomato a quello giovane e dotato di un fotografo il cui sguardo costituisce l'oggetto del desiderio di un cieco gallerista d'arte. Acquisire una seconda vita migliore della prima è in ambo i casi lo scopo dichiarato degli acquirenti (non sfugga, inoltre, che in entrambi i film i soggetti in questione fanno una brutta fine).

Se degli aspetti sociopolitici e (auto)ironici non mette conto parlare poiché il film li esplicita e sviluppa in modo fin troppo evidente, è forse meno superfluo richiamare l'attenzione sulla componente metacinematografica. Una componente che, seppur meno criptica e allusa del solito (si pensi, giusto per fare un esempio eclettico, al modo in cui è incapsulata nella parabola umanistica di Arrival), merita una breve riflessione. Quale posizione costruisce Get Out per lo spettatore? O, detto più semplicemente, quale punto di vista siamo sollecitati ad adottare fin dall'inizio? Quella di Chris (Daniel Kaluuya), ovviamente. La risposta è tanto scontata quanto gravida di risvolti gustosi. In primo luogo, il suo ruolo di protagonista/spettatore degli eventi è evocato dalla professione che esercita, il fotografo. Il suo mestiere coincide con l'osservare e questa caratteristica lo apparenta allo spettatore, la cui principale attività, come ciascun sa, consiste nel guardare (submotricità e iperpercettività sono i tratti distintivi che definiscono la condizione spettatoriale).

In secondo luogo, il film di Peele sottolinea a più riprese l'attività fotografica del protagonista, spingendola talvolta ai limiti del voyeurismo (si pensi a quando Chris spia col teleobiettivo Georgina dal giardino): in questi frangenti il suo guardare diventa letteralmente e marcatamente il nostro guardare e la nostra posizione spettatoriale si fonde otticamente con la sua. L'intreccio, inoltre, procede (e si risolverà) grazie agli scatti di Chris: non soltanto la sua fotografia al cellulare di Logan permette l'identificazione del soggetto con quell'Andre Hayworth che abbiamo visto sequestrare nel prologo, ma il flash scatena la fulminea e transitoria ricomparsa della coscienza sotterrata nel giovane immortalato (è peraltro in questa circostanza che viene pronunciato quel "get out!" che dà il titolo al film). Il fatto che Chris fotografi, insomma, è tutt'altro che secondario nell'economia narrativa di Scappa.

In terzo luogo, infine, lo statuto spettatoriale di Chris sussiste anche quando è sprovvisto di macchina fotografica o smartphone: se lo sprofondamento ipnotico cui è sottoposto non è privo di analogie con la suggestione cinematografica (la realtà vista attraverso uno schermo immerso nel buio), è nella già citata della sequenza preoperatoria che la sua spettatorialità tocca il vertice. Costretto a guardare e ascoltare filmati e video che gli raccontano la storia di Coagula e gli illustrano la sua situazione attuale in vista dell'intervento, Chris è a tutti gli effetti uno spettatore inchiodato alla poltrona, semplice osservatore di qualcosa a cui, almeno in linea teorica, non può sottrarsi (ecco che l'iperpercettività si salda con la submotricità). "Uno spettatore, vivrai nel mondo sommerso", gli dice a chiare lettere, poco prima dell'intervento programmato, il gallerista cieco attraverso il tubo catodico. Questa sequenza non riproduce forse la situazione cinematografica in termini iperbolici e caricaturali? Naturalmente il successo riscosso dal film non dipende da tutto ciò e deriva sostanzialmente dalle qualità della scrittura (costruzione ingegnosa, progressione drammatica ben orchestrata, personaggi ben delineati, attualità tematica e via seguitando), ma, dal momento che qui ci occupiamo di cinema e non di analisi del racconto, correva l'obbligo di chiarire che Get Out non si limita alla sola soddisfazione retinica e spettacolare, ma ci mette in scena per interposta persona: letteralmente, anacronisticamente e ipnoticamente.

La recensione contiene spoiler.

A ben guardare, l’incipit rivela già tutto: è notte e un ragazzo (nero, vestito con una giacca scura) viene pedinato da un’automobile (bianca, bianchissima, di un bianco talmente acceso e pulito da sembrare quasi innaturale). Passano pochi secondi e un uomo scende dalla macchina, assale il giovane e lo rinchiude nel bagagliaio. Non sappiamo ovviamente chi sia la vittima, non conosciamo il rapitore, non abbiamo un movente. Non abbiamo nessuna informazione in più rispetto a quando ci ritroviamo a guardare in rete uno dei tanti orrendi video che denunciano le violenze subite dagli afroamericani negli Stati Uniti. Non c’è niente, insomma, niente all’infuori di uno scontro smaccatamente visibile, in cui l’unica cosa che conta è un conflitto di superficie: nero e bianco, vittima innocente e carnefice anonimo, subalternità (il giovane si sposta a piedi e si è perso) e arroganza (il bianco si palesa fin da subito come macchina), posti immediatamente in un contrasto che a prima vista non ammette spiegazioni.
Quello della superficie (di come si presenta e di ciò che nasconde, ma anche di come sfondarla e di come appropriarsi di quella altrui, nonché della miriade di significati che un’operazione di questo tipo si porta appresso) sembra allora essere il perno attorno al quale ruota tutta la narrazione di Get Out, sorprendente esordio alla regia di Jordan Peele ed ennesimo, inaspettato, caso cinematografico (a fronte di un budget di appena 5 milioni, il film ne ha incassati, solo in patria, 33 nel primo weekend e quasi 175 in totale) prodotto da Jason Blum, vero e proprio guru dell’horror contemporaneo (davvero impressionante la filmografia della sua Blumhouse Productions: tra gli altri, oltre ai fenomeni Paranormal Activity, Insidious, Sinister e La notte del giudizio, ha rilanciato Shyamalan con The Visit e Split e, fuori dal genere, ha partecipato alla scoperta del talento di Damien Chazelle grazie al fenomeno Whiplash). Un successo la cui spiegazione non è affatto da ridurre nei termini (prevedibili e buoni per tutte le stagioni) dell’attualità e dell’urgenza dei temi trattati (e il flop del recente The Birth of a Nation è qui a dimostrarlo), quanto piuttosto nelle modalità e nella scelta di campo: perché nel ricondurre la questione razziale all’horror, Peele riporta la politica al centro del genere in modo finalmente incisivo e discorsivo (e non aprioristico come accade nella già citata serie de La notte del giudizio), realizzando un film che proprio per questo pare uscito direttamente dagli anni ’70, da prima che l’industria e l’esplosione ludica del postmoderno portassero il genere ad una consapevolezza di sé talmente elevata da trascinarlo progressivamente verso una sempre più palese e frequente decostruzione metalinguistica. Get Out dunque (similmente ad un altro film recente e, seppur in altri termini e in altri contesti geografici, apertamente politico come Wolf Creek 2 di Greg McLean), non riflette tanto su se stesso, non è interessato a ragionare sulle regole e sulle convenzioni che contraddistinguono il genere di riferimento, ma si propone di rielaborare la realtà attraverso un linguaggio schietto, diretto, aperto, fatto di poche metafore (tutte, peraltro, facilmente individuabili: si pensi alla figura del cervo, al modo in cui viene messa in scena l’identificazione del protagonista con l’animale investito e alle deprecabili e fin troppo trasparenti parole pronunciate dal padre della ragazza durante il primo incontro) e capace di articolare in modo efficace ed interessante un’urgenza sempre più evidente. Insomma, se il film alla fin fine riesce ad arrivare ben in profondità nella questione, è proprio grazie alla forza di un linguaggio immediato, tutt’altro che superficiale, eppure sempre ben leggibile in superficie.

In fondo, ci vuole poco per intuire dove andrà a parare la vicenda e ci vuole ancor meno per iniziare a dubitare della bontà della famiglia in cui si è ritrovato Chris. Pur di riuscire a filmare la superficie (fasulla e stereotipata) della famiglia borghese americana, Jordan Peele corre il rischio di giocare una partita a carte quasi scoperte, spostando per molto tempo l’attenzione dalla costruzione narrativa alla costruzione satirica d’ambiente. Ecco allora che nella prima metà di Get Out l’interesse non risiede tanto nell’attesa del tradizionale twist narrativo (ampiamente prevedibile), quanto nell’abilità del regista (autore anche della sceneggiatura) di scindere la superficie dall’interiorità e di rappresentare un mondo che, sotto i sorrisi, la benevolenza e l’accoglienza amorevole, ne nasconde un altro, diametralmente opposto. E in questo senso, non è ovviamente un caso che il padre sia un neurochirurgo e la madre un’ipnoterapista: se il primo ha accesso fisico alla mente dei propri pazienti, la seconda ha accesso psichico al loro inconscio. Entrambi insomma, possiedono le chiavi per andare oltre la superficie, per controllare ciò che vi giace sotto,   per manipolarlo, “correggerlo” e poi ricucire il tutto in modo assolutamente invisibile. E che sia attraverso l’ipnosi o tramite un’operazione chirurgica (riprendendo dunque in modo puntuale e significativo alcune delle soluzioni più tradizionali del racconto dell’orrore), Peele riesce bene ad articolare quella che rimane una situazione (storica, attuale) di assoluta subalternità: dall’alto della sua arroganza, il bianco ha condizionato in modo talmente profondo il nero da avergli rubato l’interiorità e le sue radici, da averlo annichilito (“And it’s the black people out here too, it’s like all of them missed the movement”), reso altro da sé, prigioniero nel suo stesso corpo e ridotto per sempre a spettatore di se stesso e della Storia (“An audience you’ll live in The Sunken Place”; ed è davvero straordinaria la configurazione del Luogo Sommerso, con quella soggettiva che si fa schermo e che si allontana progressivamente dal soggetto, rappresentato contemporaneamente in prima e terza persona). Ancora una volta dunque, il nero è visto dai bianchi prima di tutto in quanto superficie (“Black is in fashion”, dice a Chris uno degli ospiti della famiglia), involucro vuoto, bozzolo da sfruttare a piacimento o per sopperire alle proprie mancanze fisiche (impossibile in questo caso non pensare anche alla paranoia da sostituzione del sé di un capolavoro come L’invasione degli ultracorpi di Don Siegel). E in un film in cui la superficie (del perbenismo americano, del corpo, del colore della pelle) è al centro di tutto e in cui il controllo e la manipolazione di tale facciata diventa cruciale, la ribellione non può che arrivare attraverso una furiosa e violenta riaffermazione di sé, dove la circolarità della vicenda è significativamente imperfetta e rovesciata: questa volta è Chris, ragazzo nero sperduto nel nulla di un’artificiosa casa borghese, ad entrare nell’automobile bianca che avevamo visto all’inizio e a comandarla, ad usarla come mezzo per cercare di allontanarsi dall’incubo. Per la prima volta nel film dunque, è il nero a prendere possesso del bianco, a sfruttarne le potenzialità (torna in mente quanto si sia insistito, all’inizio della vicenda, sul fatto che alla guida dell’automobile diretta verso la casa ci fosse la ragazza e non Chris). Poco importa se la fuga non riesce, se la macchina si schianta contro un albero dopo pochi metri: il disarmo è avvenuto e le superfici possono venire finalmente smascherate. Così il nero posseduto dal bianco, in un barlume di lucidità spara a sorpresa alla ragazza, bianca-vestita-di-bianco (che qualche inquadratura prima abbiamo visto bere un bicchiere di latte, giusto per ribadire per l’ennesima volta quanto sia centrale e immediato il discorso del colore in ogni elemento della messa in scena di Jordan Peele), e così dalla volante della polizia non scende l’ennesimo agente calvo e stereotipato, bensì l’amico di Chris, venuto appositamente per soccorrerlo. Il velo è caduto, l’orrore si è palesato, il conflitto è avvenuto, il sangue è stato versato.
“I told you not to go in that house”, dice ironicamente l’amico al protagonista, in quella che suona a tutti gli effetti come una drammatica presa di consapevolezza: in America, in questa America dove tutti “avrebbero votato Obama per la terza volta se avessero potuto”, tra neri e bianchi rimane un solco invalicabile, un conflitto aperto, ma a lungo schivato, sempre nascosto.
Manco a dirlo, celato sotto la superficie.