TRAMA
1941: sin dall’occupazione giapponese, la Cina è terreno di una guerra di intelligence tra gli Alleati e le potenze dell’Asse. La celebre attrice Jean Yu ritorna a Shanghai, apparentemente per recitare in Saturday Fiction, diretta dal suo ex amante. Ma qual è il suo vero scopo? Liberare l’ex marito? Carpire informazioni segrete per le forze alleate? Lavorare per il padre adottivo? O fuggire dalla guerra con il suo amato? Nel momento in cui intraprende la sua missione e diventa sempre più difficile distinguere gli amici dagli agenti sotto copertura, mentre tutto sembra sfuggire al controllo, Jean Yu inizia a chiedersi se rivelare ciò che ha scoperto sull’imminente attacco di Pearl Harbor.
RECENSIONI
Lou Ye è un autore instabile, ineguale, di un’irrequietezza che si trasmette osmoticamente alle sue opere, sempre imperfette, spesso umorali, non di rado interessanti, talvolta fallimentari, altre volte sorprendentemente riuscite – quest’ultimo è il caso di Saturday Fiction, in concorso alla 76. Mostra del Cinema di Venezia. Pensando al complesso della sua opera, il regista cinese incarna appieno lo spirito della corrente che lo ha visto nascere come autore, la cosiddetta Sesta Generazione che, a partire dagli anni ’90, fra le tensioni politiche, sociali, economiche e culturali che scavavano dall’interno la Cina post-Tian’anmen, ha rivolto il proprio sguardo, per la prima volta nella storia del cinema nazionale, verso la rivoluzione urbana in atto e le categorie sociali indesiderate (prostitute, disabili, artisti d’avanguardia, perdigiorno). La rappresentazione del tumulto, delle identità sfuggenti in un continuo moto di (in)definizione e – soprattutto – un faro acceso sulla dinamica del desiderio corporale come motore dell’azione politica a più livelli: queste sono le caratteristiche principali del cinema di Lou Ye, dal noir magmatico di Suzhou River (2000), alle turbolenze dei film-contro Summer Palace (2006) e Spring Fever (2009), fino agli scottanti drammi di Mystery (2012) e Blind Massage (2014). Saturday Fiction compendia tutte queste istanze e le riveste nelle forme di un elegante noir d’epoca (tentativo di genere già tentato nel ben più sfortunato Purple Butterfly), segnando il miglior film del regista da molti anni a questa parte.
Immersi nel bianco e nero, si inizia con una macchina da presa in costante rotazione attorno ai corpi, un movimento di incredibile fluidità che accompagnerà – complementandola, energizzandola – la narrazione lungo tutto il suo arco. È la principale cifra stilistica del film, la restituzione in termini formali del pulsare delle vicende, della tensione dei suoi equilibri, del caos della Storia, del groviglio battente della storia. Si inizia entrando e uscendo di scena: c’è una troupe teatrale che sta preparando uno spettacolo. Entrando nella rappresentazione in atto e poi ritraendosi per mostrarci l’artificio, la camera svela un doppio livello di realtà, avvertendo lo spettatore fin da subito: questa è la recita della Storia, la Storia non è altro che una messa in scena. Ma chi è il regista? È attorno a questa domanda che, in prospettiva meta-storico-cinematografica, Lou Ye (de)struttura il film, facendo massimo ricorso alle caratteristiche del genere (il noir, il film di spionaggio) per piombare il racconto in un labirinto di ipotesi, di contorsioni, di forze d’attrazione che deragliano contro cunicoli ciechi. Jean Yu – interpretata da una Gong Li splendida e dolente – è una diva la cui fama è sconfinata in questa Shanghai del 1941, divisa fra forze nazionali, gli occupanti giapponesi e le potenze occidentali. È in città per prendere parte ad uno spettacolo, ma oltre questa superficie si gioca una partita più importante. Questo è chiaro, ma quale sia la reale partita e in quale direzione si muovano i vettori d’influenza rimane un rompicapo. Jean Yu è un’attrice e una spia: ha un marito in carcere da salvare, un nuovo amante da tenere segreto, un padrino europeo a cui deve rispetto e riconoscenza, una girandola di personaggi dubbi che le gravitano attorno, un codice segreto da cui dipende letteralmente il destino del mondo. Chi è chi, chi fa cosa e da quale parte sta: come la Moudan di Suzhou River – che dopo essersi gettata nel fiume ritorna come suo doppio, avvistata sulla riva tramutata in sirena – Jean Yu è un personaggio dall’identità scissa e raddoppiata, inafferrabile e misteriosa, che innesca una narrazione senza confini, dalle chiusure incerte, dalle morali instabili. È forse questo il punto: non capire. Il senso del film è tutto nel vortice sensuale della sua macchina da presa che turbina verso il vuoto. Storditi, verso un finale quasi tronco fatto di un abbraccio e di un pianto (quasi una premonizione del disastro – l’inferocirsi della Guerra Mondiale – che sta per scoppiare), emergono solo le tracce di una visione disperata della Storia. Assieme alla presa di coscienza, ferocemente pirandelliana, che l’accesso alla verità ci sarà precluso per sempre.
