TRAMA
A trent’anni dall’ultimo incontro, Marianne fa visita all’ex marito Johan. Il figlio di Johan, Henrik, è morbosamente legato a sua figlia Karin, giovane e promettente violoncellista.
RECENSIONI
Trent’anni dopo SCENE DA UN MATRIMONIO, Bergman ne riprende la coppia protagonistica in un film televisivo (coprodotto, e a lungo vergognosamente occultato, dalla Rai) che, pur (o forse in quanto) profondamente diverso dall’opera precedente, non solo si colloca al vertice della classifica delle (sempre più rare) cose belle che appaiono sul piccolo schermo, ma guadagna una posizione di rilievo nel catalogo del regista. Malgrado le analogie strutturali (il racconto è diviso in scene individuate da titoli, cui si aggiungono un prologo e un epilogo) e i tanti echi (qualche esempio: il ventaglio cinese, visto nel capitolo Nel cuore della notte…, qui benedice le confidenze di Marianne e Karin, e dalla stessa sequenza viene il dialogo notturno tra Johan e Marianne, scaturito da un incubo di lui così come nel film precedente partiva da un sogno di lei, mentre lo scontro fra Henrik e Karin rinvia a quello de Gli analfabeti), SARABANDA non è un sequel ma una variazione sul tema di SCENE: cambiano non solo alcuni (non irrilevanti) dettagli (la differenza di età fra gli ex coniugi, spinta ben oltre i sette anni dichiarati all’inizio di Innocenza e panico; i nomi delle figlie, Eva e Karin, diventano Sara e Martha – Karin essendo ora l’adorata nipote di Johan -), ma il modo in cui il regista osserva le sue cavie, prigioniere di una gabbia di vetro apparentemente meno soffocante degli ambienti animati dalla (non del tutto) estinta Passione domestica. Il tono ingannevolmente documentaristico di SCENE si s(/ri)compone in un’atmosfera sospesa fra realtà e sogno, rappresentazione e racconto (l’ambiguità di Marianne, personaggio/narratore in grado di fissare la telecamera), in una successione d’inquadrature infinite e raggelanti, nella calma illusoria di un’oasi in cui si uniscono la forza brutale della materia e l’atroce levità dell’astrazione (il rapporto fra Henrik e Karin, violenza ellittica fra una porta rosso sangue e un bacio avvelenato; il conflitto insanabile tra padre e figlio, suggellato dalla caduta di una lampada inestinguibile; i sogni di Karin, un punto che si perde in un mare bianco; l’inquietudine di Marianne nella chiesa invasa dall’alba, che conferisce rilievi minacciosi alle immagini sacre; il corpo esanime di Henrik, spezzato in una serie di istantanee); la furia dei dialoghi non ne scalfisce mai la rigorosa compostezza, creando quadri di bellezza assoluta assimilabili tanto al teatro quanto alla musica che li incornicia (la prima parte della Sarabanda dalla quinta Suite per violoncello di Bach, che modula da un tetro do minore a un mi bemolle ingannevolmente quieto). Al pari di SCENE, SARABANDA riflette sul tempo e sulla memoria (l’ossessiva presenza della foto di Anna, fantasma che non vuole lasciare i vivi: il nome della madre di Karin è stato il titolo di lavorazione del film), isolando istanti di un cammino dolorosamente inevitabile e inevitabilmente doloroso, attraverso il quale una donna (Karin) riesce a divenire se stessa rifiutando definitivamente l’immagine impostale dal padre e dal nonno e un’altra (Marianne) affronta il proprio passato e incrina il silenzio della follia, sfiorando per la prima volta il corpo della figlia nel finale di questa sublime conversazione privata che riscrive nei toni di un’intimità mestamente serena l’intervista pomposa e destabilizzante che apriva SCENE. La giovane Julia Dufvenius non sfigura di fronte ai più navigati colleghi.

Dalla vita di coppia (Anna, fantasma d'amore, è morta) di Scene da un Matrimonio al rapporto padri-figli, ugualmente guasto. Marianne, sommersa da ritratti-ricordo, racconta in flashback e direttamente in macchina da presa, facendo il verso all'epilogo con intervista della saga televisiva del 1973 che, unico rammarico, era più complessa e immediata, meno depurata in terza persona. Nei primi capitoli (sono dieci) si riapre la sarabanda fra Marianne e Johan, ma è attraverso l'amore morboso che lega la nipote di quest'ultimo al padre, che Bergman la commenta: non è un caso che dormano nello stesso letto, come una vera coppia, che si arrivi all'eccesso del bacio e che siano speculari la scena del '73 in cui Johan sequestrava la moglie e quella, su sfondo rosso di violenza, in cui Henrik picchia la figlia; Karin e Marianne soffrono dello stesso spaesamento e il loro legame con questi maschi ottusi e "analfabeti" (talis pater.) è quasi incomprensibile. Toccante la scena in cui Johan si meraviglia dell'amore di Anna per il figlio scellerato e Marianne, riconoscendosi, piange senza motivo apparente. Nemmeno una lettera dall'oltretomba distoglie Karin dal masochismo che, in una sequenza onirica, la ritaglia come un puntino nel bianco del Nulla (cambierà idea in modo troppo repentino). Karin e Marianne sono unite anche dal desiderio di apertura verso il mondo (Marianne nel '73: "Amo stare in mezzo alle persone"; Karin: "Voglio far parte di un'orchestra, non esser solista"), mentre i loro "compagni" tendono all'isolamento e all'autocommiserazione. Dopo lo sfogo in Chiesa di Henrik che, stanco di vivere, suona Bach per comprendere la Morte, s'alza la preghiera di Marianne, investita da un fascio di luce e dall'intuizione che l'icona del Cristo tiene in braccio un apostolo come un figlio. Il Primo Padre ha un attacco di cattiva coscienza e reclama l'intimità dell'ex consorte per poi (come sempre) rinnegarla. La Prima Madre, invece, dona uno sguardo di puro Amore alla figlia insana per esorcizzare il marchio di follia trasmesso alla prole. Dedicato a Ingrid (Thulin).
