TRAMA
Federico, un giovane uomo d’armi, viene sedotto come il suo gemello prete da suor Benedetta che verrà condannata ad essere murata viva nelle antiche prigioni di Bobbio. Nello stesso luogo, secoli dopo, tornerà un altro Federico, sedicente ispettore ministeriale, che scoprirà che l’edificio è ancora abitato da un misterioso Conte, che vive solo di notte.
RECENSIONI
Con un approccio di derivazione lombrosiana potremmo dire che Sangue del mio sangue è un film, a sua volta riflesso di un'idea di cinema (un cinema «attraversato da costanti – come sostiene Adriano Aprà - che, pur evolvendo, riemergono [...], tanto da poter costituire un temario di impressionante coerenza»), scosso dalle stesse tensioni che incidono le fisionomie del ceppo Bellocchio, le cui asprezze si tramandano in severa somiglianza, come si può vedere dai volti di Pier Giorgio e Alberto, rispettivamente figlio e fratello, ambedue doppi obliqui, del regista.
Nel film interpretano entrambi Federico Mai (il primo, quando questo si presenta come uomo d'armi, e il secondo nel momento in cui riappare, a distanza di trent'anni, indossando la talare cardinalizia), arrivato nelle prigioni del convento di Bobbio per riscattare la memoria del fratello gemello Fabrizio, sacerdote suicida per un amore senza fortuna. Un ritorno per rimorso sulla scena del delitto che crea cortocircuiti tra autobiografia (Camillo, gemello di Marco, morì per circostanze simili a quelle di Fabrizio) e autocitazioni (Gli Occhi, la bocca), innescanti sdoppiamenti e dissociazioni, nonché identificazioni.
Il tentativo (fallito), rappresentato da Vacanze in Val Trebbia, di chiudere i conti con Bobbio, col tempo del dolore, dove tutto è cominciato (I pugni in tasca), negli ultimi anni (prima con Addio del passato, poi con Sorelle Mai), si è tramutato in accettazione di ciò che è stato. Questo non vuol dire che Bellocchio si sia rassegnatamente riappacificato con un mondo che ha sempre visto e ritratto come uno spazio concentrazionario, martirizzante, sotto la cui apparenza e buona reputazione covano inestirpabili nevrosi. «Bobbio è il mondo» viene detto ad un certo punto, quando il film passa al presente, all'Italia di oggi. Una dichiarazione che suona di minaccia visto che il paese è mostrato come un microcosmo grottesco ed esasperato tenuto in stallo da grinzose marionette del potere, senilmente conservatrici, mosse da un misterioso conte (un vampiro?), maiestas indegna nel suo modo di essere, ridicola nelle sue fantasticherie, nei suoi gesti, nel suo corpo, tragicomica nelle sue idiosincrasie, ma subdolamente feroce nella difesa dello status quo; la cui ingerenza si riassume nella massima queta non movere, in un astuto immobilismo elevato a sistema politico e a criterio culturale. Un paese incapace di mandare definitivamente, radicalmente, affanculo i padri e le madri, come si augurava Ernesto Picciafuoco ne L'ora di religione, che continua ad aver bisogno, pur disprezzandolo, di un padrino, di un protettore, di un patrono, colui che ha tessuto quel garbuglio consociativo di ruberie di cui tutti hanno approfittato e a cui non vogliono rinunciare. Per le strade e tra la gente si respira un'aria da operetta, di frivolezza, di diffusa irresponsabilità e incoscienza; una disperata e impaziente voglia di inebriarsi che nasconde l'ombra della caduta incombente che diviene, però, a poco a poco sempre più spettrale. La drammatica consapevolezza di un destino irreversibile che presagisce la propria sconfitta e l'accetta è evidente nella sequenza notturna quando il conte si trova faccia a faccia con i suoi mediocri concittadini, vittime colluse al proprio carnefice: qui lo slancio insofferente di sfida, di disobbedienza, è subito soffocato in una frenetica danza macabra, in un delirium tremens che ben esprime il clima di «gaia apocalisse», di cordoglio annunciato che incombe sulle vite di tutti.
Sangue del mio sangue procede inquieto, attraverso continui cambi di registro: nella prima parte del processo a Benedetta, accusata di stregoneria per aver sedotto e persuaso Federico a tradire la propria missione sacerdotale, Bellocchio dipinge con la luce sequenze di splendore pittorico che compensano formalmente il dolore lacerante della vicenda; nella seconda, quella al presente, il regista trattiene la sua visionarietà a favore della recitazione, rimanendo maggiormente concentrato sul lavoro degli interpreti. Un incedere rapsodico, tanto sul piano visivo che su quello espressivo, che però non trasmette un senso di disomogeneità come invece accadeva di fronte a Bella addormentata; e questo perché le due parte collimano in un medesimo finale, che ricorda quello de La visione del sabba. Come accadeva a Davide, il protagonista del film del 1988, anche Federico e il conte si lasciano travolgere generosamente, fino al limite del sacrificio, dalla bellezza.