TRAMA
In una piccola città dimenticata fra montagne coperte di alberi vivono un bambino e sua madre. La vita quotidiana è sconvolta da quando la città è diventata il crocevia della guerra tra militari e cartelli della droga. Date le poche opportunità di lavoro e la mancanza di soldi per trasferirsi altrove, la madre coltiva marijuana per i cartelli. Un giorno non fa ritorno dal lavoro. Distrutta dal dolore, la nonna manda il bambino nella foresta a pregare il sole, il vento e l’acqua, affinché la madre possa far ritorno indenne. Mentre i soldati arrivano e gli abitanti del villaggio si preparano allo scontro finale, la natura si manifesta in tutta la sua potenza.
RECENSIONI
L'universo, la natura e, in mezzo, l'uomo. E quindi la violenza. Di chi la compie per imporre il proprio potere, ma soprattutto di è costretto a subirla, silenzioso e disperato. Nel suo porsi al centro di una guerra iniziata chissà quando, Sanctorum è un film animato da forze in opposizione. I militari contro i cartelli della droga, i soprusi di questi ultimi nei confronti degli abitanti di un piccolo paese sperduto fra le montagne, l'uomo contro l'uomo, l'uomo contro la natura. La natura contro l'uomo. Misteriosa, imperscrutabile, vendicativa, definitiva. Al suo secondo film per il cinema (il primo, La Maldad, era stato presentato alla Berlinale 2015, sezione Forum) il talentuoso regista messicano Joshua Gil (qui anche sceneggiatore, direttore della fotografia e montatore) mette in scena un racconto che va al cuore della drammatica realtà sociale del suo Paese: lo sfruttamento dei campesinos, le ingiustizie di un mondo incapace di sottrarsi alle logiche della sopraffazione del più debole, la sofferenza e la rassegnazione degli ultimi, costantemente traditi e abbandonati. Corpi dimenticati, corpi che scompaiono senza lasciare traccia. Desaparecidos. Ecco allora che al movimento eterno e costante dell'universo e della natura, Sanctorum ne contrappone un altro, estremamente umano, eppure altrettanto infinito: un bambino in cerca della madre, di una Madre, di un corpo mancante da cui poter ricevere, finalmente, tutto l'amore e l'affetto perduti.
In questa potente e ipnotica sinfonia visiva che tanto deve ad Apichatpong e Reygadas (Joshua Gil ha iniziato la sua carriera lavorando nel dipartimento di fotografia di Japón), il regista adotta uno sguardo austero, che spesso sembra volersi porre esattamente a metà fra il desiderio di oggettività del documentario di osservazione e la dichiarata partecipazione emotiva della finzione. In bilico insomma, tra fisica e metafisica, tra reale e fantastico, con quest'ultimo ad irrompere quasi sempre in modo tanto inatteso quanto significativo e pregnante. E quando nel film entra prepotentemente la fantascienza nella sua declinazione più allegorica, questa sembra quasi voler reclamare a gran voce il suo spazio, per riportare il racconto (il mondo) all'interno di codici e regole sicuramente disperate, eppure più giuste ed eque, perché distanti anni luce dalle brutali leggi degli uomini. Un'impossibile rivolta della natura e dei fantasmi alle ripetute violenze dell'uomo sull'uomo, un sogno forse, una catarsi capace di donare finalmente un'immagine alla tanto annunciata apocalisse e di riportare tutti sullo stesso misero ed insignificante livello. Militari e criminali, i primi e gli ultimi, gli oppressori e gli oppressi.
L'universo, nel frattempo, continua il suo interminabile e oscuro movimento.