Drammatico, Recensione

SAN MICHELE AVEVA UN GALLO

TRAMA

Nel 1870 Giulio Manieri, rivoluzionario “internazionalista”, viene arrestato e condannato al carcere a vita. Fa di tutto per non impazzire in cella.

RECENSIONI

L'opera meno fortunata, a livello di distribuzione (per problemi produttivi uscì solo nel 1975) e, forse, la migliore dei fratelli pisani: il basso costo li indirizza verso una stilizzazione formale che accresce l’intensità, la poesia simbolica del contenuto. Ci sono meno cambi improvvisi di registro, meno divagazioni, voli pindarici e formalismi del (loro) solito a favore di una memorabile, continua, coerente, concentrata fusione di concreto e astratto, fenomenico e onirico, realismo e straniamento, ironia e dramma, favola e apologo politico. Ancora il tema della rivoluzione fallita, ancora I Sovversivi, ancora un personaggio meraviglioso (interpretato magistralmente da Giulio Brogi) che diventa emblematico nei tre livelli di lettura in cui è diviso il film, tre idee che sono altrettanti momenti di grande cinema. C'è il tema del sognatore di un’utopia vista con gli occhi ingenui, ridicoli ma allo stesso tempo toccanti di un bambino: nei ricordi d’infanzia si faceva coraggio cantando la filastrocca del titolo mentre era in punizione nello sgabuzzino buio. Ora in cella (secondo livello), allo stesso fine, se la “racconta”, fa la voce grossa, si atteggia, si immagina ricoperto di gloria quando la realtà ai nostri occhi (e ai suoi, nel finale) rivela un’altra verità (terzo livello), dove i suoi atti rivoluzionari sono poco incisivi, i suoi rivoluzionari sono solo buffi compagni di giochi e la sua voce resta inascoltata. La figura di Manieri è anche mezzo di una denuncia del disumano sistema carcerario: dieci anni di segregazione in cui farà di tutto per non impazzire o forse fa di tutto perché è già pazzo. Nella parte finale lo vediamo solo su di una barca: Manieri diviene allegoria della “sinistra storica” (contemporanea), quella che non riesce a comunicare con i giovani (chiari i riferimenti al '68) o ha difficoltà ad accettare una presenza femminile fra le sue fila (e a separarsene: vedi la figura del padre che segue la figlia ovunque). Un'opera, ispirata a "Il divino e l'umano" di Tolstoj, disperata, profondamente umana, fantasiosa e concreta, emozionante nonostante (e qui alberga la magia del tocco dei Taviani) la vena brechtiana che ironizza e deforma: perché nel loro cinema che si tuffa nel passato per parlare del presente, la deformazione assume i contorni della fiaba, con un incedere narrativo ricco di creatività e modi di impatto.