TRAMA
Oxford, 2006. Oliver Quick viene ammesso al Webbe College dell’Università di Oxford, ma a causa delle sue origini umili fatica ad integrarsi tra i facoltosi universitari. Tutto cambia quando un giorno presta la sua bicicletta al ricco e popolare Felix Catton, dopo che questi ha forato una ruota. Felix ed Oliver diventano presto amici…
RECENSIONI
Spoiler!
Nella storia di Oliver Quick (Barry Keoghan) che nel 2007 da borsista sbarca all’università di Oxford ed entra nell’orbita del fascinoso Felix Catton (Jacob Elordi) che lo inviterà a Saltburn, la principesca tenuta della sua multimilionaria famiglia, cruciale è il dialogo in cui i due protagonisti parlano per la prima volta di sé; quando Felix narra delle intricate vicende della sua dinastia, Oliver osserva «Sembra un romanzo di Evelyn Waugh» e Felix: «In effetti si è spesso ispirato alla mia famiglia, era ossessionato dal nostro casato». In quel passaggio la regista e sceneggiatrice Emerald Fennell sta dichiarando il principale riferimento del film, la novella Ritorno a Brideshead (1945) che funge da modello narrativo da rivisitare e attualizzare: dal romanzo nel 1981 è stata tratta una delle serie storiche della televisione inglese, con Jeremy Irons protagonista e, nel 2008, un film di Julian Jarrold - ne scrivevo qui -, mentre della miniserie cui Luca Guadagnino lavora da anni pare non se ne faccia più nulla.
Non opera, Fennell, un puro rimando al romanzo di Waugh (ed estensivamente a tutta un’accademia filmica in tema - nelle interviste la Nostra cita spesso James Ivory -), ma ingaggia una scientifica dissacrazione della storia del rampollo dell’aristocrazia britannica che nella Oxford del 1923 si lega al rappresentante di una classe subalterna, al punto da invitarlo nella big house di famiglia. La regista riprende alla lettera l'ambiguità del legame che si instaura tra i due compagni e mutua dal romanzo i personaggi che ruotano loro intorno, in particolare i diversamente eccentrici genitori e la sorella del rampollo alla quale l’amico in visita si lega, scatenando le gelosie del primo. In Saltburn la sorella si chiama Venetia, allusione alla città che nel romanzo sarà teatro dell’esplosione dei conflitti.
Detto del motivo ispiratore, l’autrice si diverte a mischiare le carte: così sembra dipingere Felix come un incantatore bello&ricco che soggioga Oliver, suggerendo l’idea che il borsista&outsider sia una sorta di pupazzo nelle sue mani, un distillato di quella realtà che, da privilegiato, il nobile non sfiora neanche con un dito e della quale però ama farsi l’idea, secondo un costume usa-e-getta («Mi piaci più di quello dell'anno scorso» dice Venetia a Oliver, sottintendendo la serialità del fratello in materia). La storia mostrerà che le cose stanno in termini esattamente opposti: è Oliver il vero manipolatore, colui che orchestra gli eventi e tesse la tela.
Ed è con questo capovolgimento che i riferimenti del film (cercati o involontari) si moltiplicano.
Il primo e più evidente - cosciente e nelle immagini - è quello di Il servo di Joseph Losey, sceneggiato da Harold Pinter. Servo verrà a un certo punto definito il protagonista che, alla maniera del Dirk Bogarde loseyano, sovvertirà le logiche di supremazia e sudditanza tanto di classe, quanto psicologiche. Ma a essere pinteriana è la logica stessa dell’invasione dello spazio domestico e la minaccia interna che Oliver costituisce per il nucleo (Venetia: «Gli estranei sono fottutamente pericolosi»). Qui mi è venuto in mente, oltre all’ovvio Teorema pasoliniano e al citatissimo Ripley di Patricia Highsmith (Giulio Sangiorgio mi ricorda anche Perdidos en la noche, l’ultimo film di Amat Escalante visto a Cannes, pienamente in tema), anche L’ospite, un romanzo di Sarah Waters - che nel 2018 diventa un film di Lenny Abrahamson - che giocava col metafisico in chiave metaforica, laddove la presenza che infesta la big house scenario della storia, annientandone (come avviene in Saltburn) gli abitanti, non ha niente di sovrannaturale, è una ferita che viene dal passato, è il sacrosanto rancore di una classe umiliata che si incarna nell’Ospite protagonista (Domhnall Gleeson), figlio di una rappresentante dell’antica servitù e a disagio con le sue origini, fin da bambino cresciuto nel culto di quella magione e infine infiltratosi al suo interno. Allo stesso modo in Saltburn Oliver è l’ospite, in un senso quasi biologico, l’esemplare di una specie differente, un simbionte che non può vivere se non attaccato a un altro organismo, in altre parole un parassita (e Parasite è altro riferimento obbligato, anche solo come luogo ricorrente nel cinema contemporaneo). Ollie stesso, del resto, si definisce un vampiro, ché il suggere il sangue mestruale di Venetia costituisce un atto che trascende il discorso sessuale e che si fa più ampiamente simbolico, laddove quello sul sesso è un implicito discorso che attiene in primis al meccanismo di potere e sottomissione.
Un ribaltamento di prospettiva che troviamo già nel primo film di Fennell, Una donna promettente che propone, su un piano diverso (il sessismo al posto del classismo), la stessa logica: smentendo le premesse e facendo prendere alla storia un verso inimmaginabile all’inizio, la protagonista usa un’apparenza di fragilità costruita ad arte (la finta ubriachezza) per dare di sé un'immagine vulnerabile; è un agent provocateur che mette in campo una strategia volta a punire il (possibile) maschio violatore, vendicando un torto atavico. A dire che ai dislivelli che la società propone - con le ingiustizie e i torti che menano con sé - si può rispondere con un atto sovversivo e scorretto (motivo sotteso anche all’ultimo Ozon di Mon crime).
Posto che - sorpresa! - in Saltburn anche quella di classe è questione tutt’altro che lineare, complicata come risulta dalla rivelazione che Oliver non proviene affatto da una famiglia di reietti, come ha voluto far credere, ma da un conforme nucleo borghese che non gli ha fatto mancare nulla. Un dato, questo, che contribuendo a rendere torbido l’identikit del protagonista, fa del giovane un personaggio programmaticamente opaco, in continua contraddizione e che lega il suo destino a quello di Felix per ragioni mutevoli: l’amicizia, no l’amore, no il sesso, no la follia, no lo status sociale ché Saltburn, come Brideshead, è una sorta di Arcadia alla quale tendere e che, una volta raggiunta, non si vuole più lasciare. Lo stesso racconto di Ollie in voice over, da un altro tempo (ancora Brideshead, che ve lo dico a fare), sembra sostenere a turno una di queste ragioni per poi contraddirla e riaffermarla ancora.
Proprio questa opacità, che molti hanno letto come un difetto di scrittura del personaggio, ne costituisce il punto, quella di Oliver suonando come una personalità sfuggente in cui tutti i detti motivi si incontrano e si scontrano: se la questione classista di Waugh (che era anche culturale e religiosa) era sempre leggibile, essendo all’epoca nette le distinzioni in discorso, nell’attualità il dato è lontano dall’essere univoco, anzi, è confuso e contraddittorio perché fratturata e complessa, a tratti imperscrutabile, è la conformazione della società contemporanea. Per questo la personalità di Ollie è un puzzle, un sovrapporsi di maschere, un incrocio di pulsioni che sa della schizofrenia e della mitomania dei nostri anni: Oliver - lo dice - vuol bene a Felix, ma lo detesta anche; lo ama, ma lo odia; ne è attratto sessualmente (scopa letteralmente con la terra che ricopre la sua bara - e fotte il Capitale, si potrebbe dire -), ma non è meno attratto dal suo privilegio (e quel leccare la vasca in cui il giovane si è fatto il bagno e masturbato ha, come il succhiare il sangue mestruale di cui sopra, più del simbolico che del sessuale, inglobando, quel gesto, l’ossequio al luogo e alla schiatta - lo sperma la rappresenta - a cui Felix appartiene). La sua messa a nudo finale, il ballo nelle sale del maniero, è l’ennesimo inganno teso allo spettatore ché di Oliver scopre solo il corpo, per l’appunto, rimanendone oscura l’essenza e inviolato l’enigma che concerne la sua persona: voleva ottenere Saltburn? O piuttosto l’esaltazione danzerina sta soprattutto nell'averne sterminato i proprietari? Quale era il suo piano? E quando l’ha concepito?
Fennell, dunque, adottato il modello, lo cala nel contemporaneo, nella tendenza tutta attuale, ad esempio, di sottolineare ed esplicitare ogni passaggio narrativo: se nel finale la strategia del protagonista è già evidente e la decodifica suona brutale e ridondante, l’autrice sembra adottare tale soluzione in piena coscienza, nella coerenza di un quadro che resta però elusivo e in cui l’eccesso è cifra e non certo difetto, ché quello è il tono prescelto in un menu (uso un termine che rimanda alla pornografia dell’oggi che è tutta nell’ossessione del cibo, sottilmente rappresentata anche nel film) che contempla tutta la varietà degli umori e dei fluidi umani (il vomito, pure). Alla base, ribadisco, c’è l’intento di volgarizzare il modello iniziale - elegante, colto, letterario - al punto che la scena al centro del labirinto, in cui si consuma l’omicidio di Felix, sembra strappata a un folk horror e la rappresentazione teatrale rivelatoria, in stile Amleto, non ambisce a niente di più nobile e di meno degradante di un karaoke con Rent dei Pet Shop Boys a far calare la maschera dei due diversi opportunismi, quelli di Oliver e del cugino Farleigh. Quella Rent, sia detto, il cui video, diretto da Derek Jarman, proponeva proprio un ritratto di classe totalmente in linea con quello del film, posto che, nel visibile mood videoclipparo di Saltburn (fotografia portentosa di Linus Sandgren, sodale di Damien Chazelle), i riferimenti sono certi affreschi psychedelic-hippie degli MGMT (non a caso presenti con l’immarcescibile Time to pretend che data, filogicamente, 2007) e soprattutto Sucker, diretto dal più cinematografico dei videomaker dei nostri anni, Anthony Mandler, che potrebbe addirittura costituire una reference cosciente.
Volgarizzare, dicevo, ma sempre tenendo presente che il ritratto di questa élite suona mostruoso solo se non ci si sofferma a pensare che la plutocrazia funziona esattamente così: divorante, indifferente (la morte di Pamela, neanche comunicata, che salta fuori come l’insperata fine di un fastidio), protezionistica (Oliver che si stupisce che Farleigh sia invitato alla festa dopo essere stato allontanato dalla casa: «Per me non è un sogno, è casa mia. Qualunque cosa succeda tornerò sempre»), la democrazia e il progressismo come travestimenti (e infatti Farleigh, che conosce i suoi polli, mette nel sacco la formalissima informalità di Felix facendogli notare che non conosce neanche il nome dei suoi domestici).
Saltburn non cerca dunque quadrature narrative perfette, è il triviale Ritorno a Brideshead che il nostro tempo si merita, un film che opera nel disordine, per stravolgimento e deturpazione, insofferente a quelle etichette critiche che non hanno altra funzione che rassicurare chi le affibbia: i personaggi più dell’intreccio, le immagini più della scrittura, l’audacia grafica più della finezza interessano Fennell, in un cinema, quello di consumo e abitato da (nuovi) divi, che oggi mediamente osa meno delle serie televisive. Per questo lavora magnificamente su interpreti che la macchina da presa (br)ama senza ritegno e che congela e stilizza in immagini instantaneamente instagrammabili.
In un film che è diventato subito oggetto di discussione, con quell’accanimento che è proprio delle opere che - nel bene, nel male, who cares - lasciano un segno.