Drammatico, Processuale, Recensione, Streaming

SAINT OMER

Titolo OriginaleSaint Omer
NazioneFrancia
Anno Produzione2022
Durata122'
Fotografia
Montaggio
Scenografia

TRAMA

Una scrittrice assiste al processo di una giovane donna accusata di aver ucciso la figlia di soli 15 mesi per trarre dal caso una rivisitazione contemporanea del mito di Medea. Ma mentre il processo va avanti, nulla procede come previsto e la scrittrice, incinta di quattro mesi, si ritroverà a mettere in discussione ogni certezza sulla propria maternità.

Gran Premio della Giuria, Leone del futuro – 79ma Mostra di Venezia
Premio César per la migliore opera prima

RECENSIONI

Cosa vede Rama, scrittrice trentenne, incinta di quattro mesi, quando guarda Laurence Coly, accusata di infanticidio dopo aver abbandonato la figlia sulla spiaggia di Berck-sur-Mer, al levarsi della marea? Dapprima una storia che vale la pena raccontare, un'indagine da cui trarre conclusioni sociologiche, un moderno parallelo che lei, professoressa di Letteratura all'università, può tracciare con la tragedia di Medea. Ma una perturbazione altera gradualmente l'esperienza in aula, lo sguardo muto, non ricambiato (almeno fino a un momento decisivo, a una scena madre) di Rama su Laurence, ex studentessa promettente, immigrata, come lei ferita nel rapporto con la donna che l'ha messa al mondo – e, quindi, nel proprio rapporto con il mondo. La fissità di Laurence, il suo mistero inscalfibile, mettono in crisi Rama; carnefice imperfetta, provocatoria, l'altra donna interroga l'avvocata, la giudice, le spettatrici, torce su di loro la domanda, chiede a loro perché. Perché l'ha fatto?
Attraverso la potenza disarmante dei primi piani-mondo in cui Alice Diop cinge, sospende, osserva da una zona limbale la sua interprete Guslagie Malanda, è lei, Laurence, a interpellare la comunità che le sta di fronte, le figure di rappresentanza per una collettività che l'ha lasciata sola, e che continua ad abbandonarla, ostinandosi a leggerla muovendo da modelli interpretativi radicati in forme di controllo e oppressione di classe, squalificanti, ciechi. Esempio: ma insomma, cosa può aver a che fare, una giovane senegalese, con un filosofo austriaco? Una tesi di laurea su Wittgenstein non poteva che essere una scelta programmaticamente di sfida, un affronto controverso. Laurence Coly è una frode, una manipolatrice, un'aliena cattiva. Gli strumenti d'analisi che la struttura della legge e quella dell'ambiente sociale calano su Laurence Coly tradiscono i propri limiti, la superstizione, il pregiudizio. Non sanno guardare, non sanno aprirsi. Ma Rama sì, e per questo ha paura. Perché sa di condividere con Laurence quella che la magnifica Virginie Efira di I figli degli altri definiva una “sterminata esperienza collettiva condivisa da miliardi di persone”. Dalle donne, co-individue (cfr. il dialogo tra Carlo Sini e Carlo Alberto Redi in Quando un corpo può dirsi umano?), esseri umani che non sono mai una, ma molteplici realtà in divenire, di una complessità non categorizzabile, che incorpora moltitudini anche oscure. Ogni donna, riflette Saint Omer, è una madre in essere, uno scrigno genetico marchiato dalla propria storia personale, da un'eredità prenatale. E se il sociale entra nella pelle, “si fa biologia, si trasmette da una generazione all'altra” (Sini/Redi), allora non si può prescindere l'una dall'altra, anche, e soprattutto, quando ci si confronta con l'indicibile.

Rama guarda Laurence, guarda la sua storia e la vede specchiarsi nella propria, vede una tragedia che avrebbe potuto appartenerle, che potrebbe appartenerle, e che appartiene a tutte, comunque sia. Questa vertigine estesa, questa stregoneria (la magia nera suggerita come movente di soccorso, come autosuggestione) lavora dentro travolgenti campi e controcampi, piani d'ascolto, inquadrature fisse. È un film, questo di Diop, esordio nella fiction dopo diversi documentari di osservazione sociale, spalancato su profondità abissali, ancestrali: l'oceano, il cielo notturno di Pasolini sul monitor di un portatile, il passato rivelatore su un nastro di VHS. E i volti delle donne, commossi nell'udire il racconto delle cellule chimeriche, migranti da madre a figlia, un mostruoso femminile, una rete ineludibile che si allunga fra le astanti e l'imputata. E che alla fine permette a Laurence di liberare un pianto sordo che risuona all'interno dell'aula e poi, dopo, nell'ambiente svuotato, immobile come la foresta immensa e primordiale di Antichrist (un'altra madre degenere, un altro pianto infinito, un'altra processione di donne fantasma).
Cosa vede Rama, cosa vede Alice, sul volto inesauribile di Laurence? Forse, l'esperienza spaventosa e trasfigurante che le unisce, una comunione che le precede, che pre-esiste, che la prima accetterà prendendo per mano la stanca madre della seconda. E poi l'inconoscibile materno, un'immensità sconosciuta e conosciuta, una galassia che è già dentro di lei.