TRAMA
Africa. Nelle selvagge praterie in cui zebre, impala, gnu e giraffe vivono a migliaia, turisti tedeschi e austriaci passano le loro vacanze spostandosi di cespuglio in cespuglio, nascosti nell’attesa, all’inseguimento della loro preda. Sparano, sobbalzano eccitati e si mettono in posa di fianco all’animale che hanno appena abbattuto.
RECENSIONI
Safari non è un film sui safari tanto quanto Paradise: Love non era, nello specifico, un film sul turismo sessuale, e In the Basement (di cui è l’ideale proseguimento) non era un semplice divertissement sugli scantinati austriaci. Mettersi in questa ottica è fondamentale per un approccio (finalmente) critico al cinema di Ulrich Seidl, scansando la frequente e alquanto superficiale accusa di “pornografia”, di cui è spesso tacciato. L’aggettivo “pornografico” indica infatti del materiale indecente e osceno, vuoto di significato e votato unicamente all’esibizione di una spettacolarità pruriginosa: siamo sicuri che una zebra, e poi una giraffa, abbattute, appese al soffitto e quindi smembrate viscera per viscera afferiscano a questa categoria? Siamo proprio sicuri che sia questo il caso? Realizzare che Safari non è un film sull’abbattimento della fauna in terra africana ci pone immediatamente in una prospettiva critica altra e maieuticamente fruttuosa. Guardare Safari oltre quello che finge di essere: non solo l’ennesima ripetizione della poetica seidliana (l’orrore ovattato di umorismo sardonico, la visione lombrosiana dei corpi, le inquadrature-tableaux), ma l’incubatore di un elemento di novità sconvolgente, forse un unicum nel cinema di Seidl – un inaspettato (e chissà quanto consapevole) moto di sdegno, addirittura di disperazione, nei confronti del materiale filmato. L’urlo di Seidl – inedito – sembra affidarsi ad un brusco movimento di macchina, che dal fucile si catapulta sul corpo agonizzante di una giraffa appena colpita. Ma non è la giraffa in sé che lo turba (che ci turba). È la persistenza testarda e agghiacciante di quello “spirito austriaco” da sempre nel mirino della sua opera, che qui pare elevato in una sua forma maggiore: la perpetuazione della violenza, l’indifferenza verso il sangue, la distanza beffarda verso l’altrui morte. Questa deriva culturale, intimamente ideologica, travalica le svastiche negli scantinati di In the Basement. Safari prende definitivamente atto di un nazismo delle coscienze patrie tanto interiorizzato da eccedere completamente la dimensione estetica e politica. È un nazismo che travolge un’intera concezione del mondo, strabordante al punto tale da stupire Seidl stesso.
La tesi di Safari non trova le proprie ragioni semplicemente nel terreno dell’emotivo ma, nello stile che gli è congeniale, l’autore architetta un lucido teorema socio-economico le cui riflessioni si estendono tanto in ambito sociologo quanto in quello storico. Nel recinto delimitato (un lager) del safari (un’altra soluzione finale) ogni capo ha il suo prezzo assegnato e il listino ci viene chiaramente elencato già ad inizio film. I cecchini del safari, normali famiglie borghesi, ci raccontano i come e i perché hanno scelto questo tipo di vacanza. I loro racconti hanno una logica e un’etica, nulla è lasciato al questionabile terreno della spinta istintiva e irrazionale. Anche il brivido, la vertigine di potere che deriva dall’atto di uccidere, scientemente e scientificamente, un animale (razza inferiore, prigioniero del lager) fa capo ad un ragionamento, una spiegazione, una filosofia compatta (la superiorità della loro razza). È una logica senza morale, ma pur sempre una logica – e pure una logica con le sue assoluzioni e attenuanti. I turisti infatti sanno che i soldi spesi per l’abbattimento dei capi contribuiscono in qualche modo al sostegno dell’economia locale. E poi sempre loro, i turisti bianchi, ci rassicurano bonari che gli indigeni neri sono brava gente, davvero dei buoni selvaggi. È in questo contesto, comprata la morte coi soldi, che il bianco può concedersi la concentrazione necessaria per portare al termine la propria performance artistica e pulita: l’atto di uccidere dalla distanza, seguito da una foto in posa, stavolta ravvicinata, di fianco all’animale appena abbattuto. Solo a questo punto, silenziosi, entrano in azione gli operai neri, relegati al lavoro pratico e sporco – sono coloro che raccolgono il capo ucciso, che lo trascinano sul rimorchio e lo portano al macello, lo dissanguano, lo smembrano, lo riducono a pezzi. La lunga, e a suo modo indimenticabile, scena dello squartamento della giraffa ci mostra il corpo martoriato dell’Africa post-coloniale, ridotta a brandelli dal machete ipocrita e autoassolutorio di un’autoproclamatasi razza superiore. E mentre la testa della giraffa sarà accuratamente mozzata e preservata per far bello sfoggio di sé nel salotto (o nella cantina) dei turisti rientrati in patria, quel che resta ai locali, oltre al sangue sulle vesti, sono solo gli scarti dell’animale. Ossa di giraffa con poca carne essiccata da sgranocchiare. Così Seidl sferra il colpo finale, alla massima potenza, dispiegando i suoi caratteristici tableaux, mai tanto furiosi. Sono, al solito, lunghi piani sequenza a camera fissa, che infiocchettano con tutti i crismi della bella composizione e della bella fotografia personaggi immobili con lo sguardo fisso in macchina. Sono gli operai neri – sgranocchiano frattaglie d’animale e, a differenza dei bianchi, non parlano. L’inquadratura li incastra in una posizione rigida negandogli la parola, la curatissima composizione dell’immagine smaschera l’ipocrisia del contesto: devono fare solo quello che gli viene chiesto, rimanere fermi lì, in silenzio, con i loro scarti di giraffa in mano. Nazismo delle coscienze e devastanti ipocrisie post-coloniali: Safari è il più politico fra i film di Ulrich Seidl.