TRAMA
13 maggio 2016. Orhan Sahin torna a Istanbul dopo 20 anni di assenza volontaria. Come editor deve aiutare Deniz Soysal, famoso regista cinematografico, a finire la scrittura del suo libro. Ma Orhan si ritrova sempre più coinvolto nei legami con i famigliari e gli amici di Deniz che sono anche i protagonisti del libro che il regista deve finire. Soprattutto Neval e Yusuf, la donna e l’uomo a cui Deniz è più legato, entrano prepotentemente nella vita di Orhan.
RECENSIONI
Il rosso dello smalto di una madre che tutto domina, in una casa sul Bosforo, rossa anch’essa, dove l’Europa cede il passo all’Asia, in una città che non dorme mai, in cui il rosso di ogni tramonto accompagna il nero delle pulsioni verso sfoghi o malinconie e raggiunge il titolo dell’ultima fatica di Ferzan Ozpetek. La passione è quindi esplicitamente evocata, ma nel film, pur essendo a lungo dibattuta, razionalizzata, (ahimè) spiegata, alla fine arriva soprattutto anestetizzata. Il regista trae spunto liberamente dal suo omonimo romanzo del 2013 e prova a rendere universali le tracce personali di cui dissemina il racconto ponendo come protagonista un uomo che deve scendere a patti con il proprio passato per ritornare a vivere. Qualcosa di terribile lo ha allontanato da Istanbul, un lavoro lo riporta dove tutto è cominciato. Un famoso regista ha infatti scritto la sua autobiografia e ha bisogno di un editor prima di pubblicarla. Il regista esce presto di scena, mentre l’editor diventa centrale e attraverso le vite degli altri, in cui si insinua gradualmente, trova modo di fare emergere, e sciogliere, nodi irrisolti. È tutto rarefatto nella visione del regista, forse alle prese con la sua opera più ambiziosa, giocata sull’invisibile e sul tentativo di dare forma cinematografica all’irrazionalità dei sentimenti. Una sorta di flusso di coscienza per immagini. Il thriller dell’anima che ne consegue, però, gira presto a vuoto. Non basta certo gridare il proprio struggimento per riuscire a motivarlo e trasmetterlo. Da una parte il consueto amalgama di amori tormentati, parenti ingombranti, amici, complici, amanti, ma dall’altra coordinate narrative poco centrate, comunque non abbastanza per scalfire la superficie dei personaggi.
Esiste un passato comune che lega editor e regista? Che fine fa il regista e perché nessuno se ne preoccupa più di tanto? Perché l’immedesimazione dell’editor nella vita del regista è così totale quando la sua storia personale è completamente diversa e nulla sembra apparentemente legarli se non la terra di origine? Perché la crisi di colpo si risolve? Domande che sorgono spontanee e che la visione non riesce a ridimensionare o a rivestire di adeguate valenze simboliche. Ciò che arriva, arriva infatti didascalico (le frasi fatte, gli inserti sdrammatizzati di Serra Yılmaz, l’incontro con la sorella, le prevedibili girandole affettive, quel tuffo finale), ciò che si vorrebbe impalpabile e intimo, invece, semplicemente non arriva e fluttua in un limbo poco comunicativo. Anche perché lo scavo dei personaggi si ferma alla pancia e lì gongola con poco costrutto. I non detti pesano quindi come macigni, mentre i detti si scartano come aforismi in un cioccolatino. I cliché in cui cadono alcuni personaggi di certo non aiutano. Basti pensare all’amante dannato & tossico che si porta dietro tutti i triti maledettismi del caso. Un po’ forzato anche il tentativo di fare uscire la vicenda dai salotti eleganti di un ambiente alto borghese per entrare nella complicata realtà di Istanbul. Le “madri del Sabato” che reclamano i propri figli e i curdi in fuga aiutano a connotare la vicenda ma hanno una funzione puramente decorativa. Del resto non è lì che si sofferma lo sguardo mobile di Ozpetek, attento alla forma, sempre elegante, ai suoni d’ambiente che spesso integrano e sostituiscono la colonna sonora, alla valorizzazione della presenza scenica dei personaggi, tutti interpretati da attori turchi. Ancora una volta, però, la cornice si mangia il quadro.