Drammatico, Sala, Storico

ROMANZO DI UNA STRAGE

TRAMA

Milano, 12 dicembre 1969, ore 16.37: una bomba esplode all’interno della Banca nazionale dell’agricoltura, provocando 17 morti e 88 feriti. Le indagini procedono fra depistaggi e drammatiche intuizioni.

RECENSIONI

La tazza del consólo

Troppa storia alimenta le narrazioni di Giordana, o troppo poca. Or sono dieci anni, La meglio gioventù aveva offerto una visione storica conciliativa, che scioglieva i conflitti trentennali di una società sempre più diseguale e iniqua in un’incongrua atmosfera di concordia quasi liliale, ingannevole fotografia dell’Italia presente (all’indomani di Genova 2001!) oltreché insoffribilmente paternalista, angustamente psicologistica, risibilmente sentimentale.
Quella prospettiva, summa della sonnacchiosa concezione politica ulivista che proprio allora – dopo aver conosciuto il più traumatico dei risvegli – declinava nel più greve dei tramonti, era nutrita dall’ambizione di inquadrare in un’ecumenica Historia Oficial alcune fra le vicende maggiori dell’Italia repubblicana, immancabilmente rispecchiate nelle numerose microstorie della saga della famiglia Carati.
Oggi la pretesa sarebbe di decostruire la versione ufficiale sulla vicenda di Piazza Fontana, consegnataci da un pugno di pronunce giudiziali: da un lato sul caso Pinelli, dall’altro contro gli imputati Valpreda prima, Freda e Ventura poi, infine Zorzi e Maggi. Ogni trama o traccia narrativa sulle responsabilità del delitto Calabresi resta per contro, e opportunamente, fuori dallo sguardo del regista, trattandosi di un cruento percorso laterale rispetto alla strategia della tensione innescata il 12 dicembre 1969. Anche in questo lavoro di indagine – ispirato al contestato libro Il segreto di Piazza Fontana di Paolo Cucchiarelli – Giordana procede tuttavia con un irragionevole eclettismo, che inficia il meritorio intento civile trasformando il film d’inchiesta in un grande spettacolo; intriso di sospetto e di timore verso gli apparati statali deviati (come vuole il ben noto eufemismo), sì, ma un sospetto e un timore che si agitano nel vuoto di una società senza storia.

Non basta certo il tragico episodio della morte dell’agente Annarumma (19 novembre 1969), che apre il film, a raccontarci l’Italia di quegli anni; si tratta anzi di una scelta gravemente tendenziosa, che induce a identificare quella stagione – di cui null’altro viene raccontato, a parte le innocue canzoncine e le auto d’epoca – con la violenza talora affiorante nelle contestazioni di piazza. Per quali idee si discuteva, ci si organizzava, si manifestava? Quali erano i sogni, le utopie, i progetti non soltanto di Pinelli e dei suoi compagni che una consapevole strategia di depistaggio volle incolpare dell’attentato, ma di una importante parte del popolo italiano di allora? Che torsione fece assumere, alla storia italiana e alla sua fragile democrazia, quella mostruosa azione occulta e illegale dello Stato guidata dall’ideologia della violenza? Di tutto questo, nel film non v’è traccia. Manca quasi totalmente una visione del senso di quegli eventi. Quale distanza da Buongiorno, Notte, ove Marco Bellocchio si è reinventato il sequestro Moro mostrandoci – letteralmente facendoci vedere per forza significativa delle immagini – le connessioni tragiche e i risvolti ridicoli di quello snodo epocale, la grottesca ritualità del ceto politico-clericale e la povera fanatica stupidità dei brigatisti. Non serve il minuzioso cronachismo per dire il senso della Storia.
Quando poi la cronaca si pretende obiettiva e anzi rivelatrice ma opera in modo drasticamente selettivo; usa le sentenze a piacimento, prendendo come oro colato quella sul caso Pinelli (che a sua volta scandalosamente ignorava la testimonianza di Pasquale Valitutti circa la presenza di Calabresi nella stanza dell’interrogatorio) e sollevando dubbi non documentati su quelle che scagionano Valpreda e inchiodano Ventura e Freda (la teoria della miccia, quindi della seconda bomba, non ha mai avuto alcun serio riscontro); mostra tutti gli anarchici a parte Pinelli come un gruppo di fessi parolai talora violenti; quando lo spettatore non completamente ignorante dei fatti osserva tutto questo, il sospetto di un racconto ad usum Delphini si fa pesante.

In tale senso deteriore si può affermare l’intento pedagogico dell’opera giordaniana, che di certo non riesce ad attingere alla grandezza dell’appassionato pamphlet di denuncia o del vigoroso film a tesi (sul modello di un Rosi o di uno Stone), ma segue una più tranquilla benché nebulosa mezza via; il romanzo (come onestamente denuncia il titolo) costruito con efficacia sulle vicende di tre eroi – Calabresi, Pinelli, Moro – solitari e incompresi o addirittura osteggiati nel loro ambiente, con l’unico conforto proveniente dalle compagne (inespressiva figurina la Gemma Calabresi di Laura Chiatti, asciutta e intensa la Licia Pinelli di Michela Cescon) o dal tormentato dialogo con uno ieratico consigliere spirituale (l’ultima apparizione di Gianni Musy). Giordana trasforma la storia collettiva di un Paese nell’intreccio di tre avvincenti story individuali, con i buoni incastrati dai cattivi (gli anarchici, i fascisti, una parte dei servizi segreti). Degni di elogi sono il sommario ma efficace inquadramento dei personaggi; la leggibilità dell’intrico; il moderato tasso di retorica; la radicale assenza di macabro sensazionalismo nella sequenza dell’esplosione, condotta anzi ammirevolmente sul filo della tensione del prima e dello smarrito orrore del dopo senza ricorrere al riprovevole grand guignol o a lacrime ricattatorie; gli attori funzionali: Mastandrea e Favino umanissimi nel loro quotidiano e solitario eroismo, Omero Antonutti iracondo e forse connivente Saragat, Giulia Lazzarini di grandezza tragica nell’impersonare la madre di Pinelli; eccessivamente mimetico Gifuni, il cui Moro giunge dappresso alla caricatura. Quanto al ritmo mai lasco, Giordana fin troppo astutamente lo intesse col concorso di un montaggio (ora alternato, ora parallelo) che atomizza le scene , di una banda sonora e di una tattica di ripresa (primi e primissimi piani, campi e controcampi) che si avvicinano a realizzare una sommatoria di momenti culminanti, di una recitazione perennemente impostata allo scavo introspettivo, all’involo lirico, al do di petto eroico.

Lo spettacolo, efficace ed emozionante spettacolo, è al servizio di una concezione che cela il minestrone della salute nell’esaltazione protagonistica, quanto mai d’effetto, dei singoli. L’opera, si è pronti a scommettere, piacerà al presidente Napolitano: il grande traghettatore che ha celebrato come una conquistata pacificazione l’anestetico collettivo costituito dall’abbraccio tra due vedove; l’auspice solenne e il rigido cerimoniere della “memoria condivisa”, che lo storico Sergio Luzzatto ha già dimostrato (La crisi dell’antifascismo, Einaudi, 2004) poter essere soltanto una memoria contraffatta, truffaldina.

33 processi, nessun colpevole e (beffa che si riservano le scritte sui titoli di coda) spese processuali a carico dei familiari delle vittime. Lode quindi a Giordana (e ai benemeriti sceneggiatori Rulli e Petraglia, fra i pochi professionisti della scrittura cinematografica rimasti in Italia, specializzati in “stragi di stato”) che rompe il silenzio a “giochi conclusi” e illumina le ombre (non importa come, con quali tesi) di un insabbiamento vergognoso su cui la Settima Arte italiana è stata ingiustamente omertosa. È sterile, infine, farsi trascinare nell’arena delle faziosità, della potenziale ricostruzione arbitraria degli autori (che, comunque, giurano di essersi basati su testimonianze e atti processuali). Il titolo del film, oltre a darsi l’alibi del “romanzo”, in realtà cita gli “Scritti corsari” di Pasolini (uno in particolare, ”Il romanzo delle stragi”): “Io so, ma non ho le prove”. Nei “fatti” esposti, di incongruenze, evidenti rimozioni di prove a discapito o accusatorie ne vediamo parecchie: gli autori sollevano la cortina fumogena e riorganizzano in un discorso coerente, facendo salire ancora di più l’indignazione nei confronti di un paese che (non) è Stato, resta e sarà una repubblica delle banane. Solo immaginare impuniti tutti gli attori, gli ideatori, i corrotti, i compiacenti di un tale atto mette i brividi. Solo pensare che, in gran parte, hanno occupato o ancora occupano posizioni di potere, provoca conati. Venendo al film, Giordana raduna il gotha della recitazione nostrana ma, di fronte alla prova di Valerio Mastandrea e Pierfrancesco Favino, gli altri impallidiscono (ruoli minori esclusi, vedi Luigi Lo Cascio o Luca Zingaretti), avendo le giuste facce con recitazioni artefatte e poco credibili: spiace dirlo, ma uno dei peggiori è Fabrizio Gifuni che recita in modo troppo affettato il suo Aldo Moro. In generale, i film di denuncia peccano di posizioni partigiane raramente obiettive (a volte Rosi, spesso Ferrara, tanti altri non degni di essere menzionati), ma non è il caso di Giordana: per quanto possibile, lascia parlare i fatti, salvo pilotarli, per forza di cose, verso la sua tesi di complotto da Colpo di stato. Il problema insorge quando lo stesso Giordana calca e non rende credibile l’ipotesi che, con fervore, propone: succede nella parte finale, all’inizio della tesi della seconda bomba, suggerita da un militare, imbastita fin nei minimi dettagli da Calabresi (figura che Giordana riabilita in tutto), tanto da sembrare (nei modi, non nell’oggetto) fantapolitica. Quando il prefetto, poi, controbatte con una tesi che incolpa la Nato, si rischia il ridicolo (sempre nei modi), aggravato da una scena successiva che suggerisce che Calabresi stesse solo sognando. E, comunque, un paese che prima rimuove e poi accusa l’altro (paese) da sé (Giordana lo fa), non guarirà mai.