
Avanti Popolo (Michael Wahrmann, Brasile 2012, 72’). André torna nella casa del vecchio padre, ritrovando i filmini in super 8 del fratello scomparso durante la dittatura militare. Tra finzione e documentario, il film di Wahrmann evoca apertamente la dittatura e la delusione rivoluzionaria degli ex comunisti brasiliani: il presente si alterna al passato con video di repertorio e materiale d’epoca. Il proiettore malandato che il protagonista vuole aggiustare è metafora della memoria sbiadita, del “film” sulla tragedia sudamericana che resiste e non si fa cancellare. Trovando molti ammiratori nel festival, la pellicola ha dalla sua momenti riusciti (irresistibile il giovane regista che si vanta di aver inventato il Dogma), è cinefila e militante, politica senza timore di dirlo, ma in generale la mescolanza fiction/non fiction è un’idea già ampiamente frequentata che viene solo riproposta. Premio migliore lungometraggio nella sezione Cinemaxxi. Voto: 6
A Walk in the Park (Amos Poe, Usa 2012, 106’). Amos Poe affronta la storia del suo amico Brian Fass, direttore della fotografia, che sprofondò in una grave depressione. “Un film di fantascienza e un viaggio psichedelico”, lo definisce il suo autore. Il regista di Alphabet City filma questa malattia in uno sperimentale digitale, tra split screen ed esplosioni di colori primari. Lisergico e delirante, non privo di certa ironia, è un oggetto weird che punta ancora Warhol (dopo Empire II) ma risulta troppo lungo, dominato dal calcolo e da facili semplificazioni: il trauma base è dovuto alla figura materna. Malgrado questo Poe si offre come propositore di un altro cinema, invita a gettare lo sguardo altrove e indica una strada diversa: quando si libera dalle convenzioni arty tocca le corde più alte, vedi le sequenze a Central Park (il parco del titolo) con la camera che perlustra lo spazio e i passanti newyorkesi che parlano come “emanazioni” della natura circostante. Voto: 6.5
Frammenti (Franco Piavoli, Italia 2012, 10’). Corto nato dalla collaborazione con gli studenti del laboratorio Fare Cinema di Bellocchio. Bobbio, turisti visitano l’Abbazia di San Colombano: in questo saggio di fine corso, il tocco di Piavoli si riconosce nell’immersione della Natura screziata dal passaggio umano. Possibile appendice paesaggista di Sorelle Mai (anche qui il Trebbia scorre immoto come il tempo), è una miniatura dove l’interno/Abbazia dialoga con l’esterno e, divagando anche sugli uomini, coltiva la possibilità di un amore. Voto: 7
Gegenwart (Thomas Heise, Germania 2012, 68’) Cosa stanno facendo questi uomini? Vediamo alcuni lavoratori in azione, senza parole, senza conoscere la natura della loro attività: solo a prodotto finito realizziamo di aver assistito alla costruzione di un forno crematorio. L’apertura di Gegenwart è già sintomatica per un film che propone un’idea documentaria peculiare (da molti accostata a Il grande silenzio): mostrare limitando il verbo, azzerare la spiegazione, ottenere il totale dalla descrizione del dettaglio. L’azione dei crematori è indagata con sobrietà e pudore, i corpi sono occultati, si vedono solo i resti – ormai spersonalizzati e dunque simbolici – che ardono. Thomas Heise studia scientificamente il posizionamento della cinepresa, come nell’impossibile soggettiva della bara che viene accompagnata verso il forno, gestisce tempi e spazi con maestria, incornicia il tutto con l’inizio innevato. Non ci sono concessioni alla leggibilità, c’è solo una collezione di immagini e figure che forma una descrizione e lascia emergere un concetto: l’attestato di esistenza dei responsabili, coloro che gestiscono il forno e accompagnano i corpi nella morte, lavoro orgogliosamente tramandato da padri in figli. Lezione di documentario che meriterebbe l’uscita, per dimostrare cosa si può ottenere con la sola forza di una posizione stilistica. Voto: 7.5
Goltzius and the Pelican Company (Peter Greenaway, Paesi Bassi 2012, 120’). Non si ha qui una improbabile pretesa critica o esegetica verso l’ennesima opera-mondo di Greenaway, si può solo suggerire di “entrare” nella cosmogonia portatile dell’autore gallese. Ci si limita a descrivere il suo passaggio nella kermesse romana: prima relegato nella minuscola sala esterna Maxxi, senza sottotitoli italiani, poi in seconda battuta riproiettato al Teatro Studio, la sala più piccola dell’Aditorium, Goltzius è l’unica proiezione del Festival andata esaurita. Nella seconda occasione il regista ha presentato al pubblico i membri della Pelican Company soffermandosi su tutti gli attori, compresi gli interpreti italiani come Pippo Delbono: “Siete abituati a vedere film con tre-quattro personaggi, vi chiedo scusa se nel mio ne troverete molti di più. Ma d’altronde anche Mozart veniva criticato perché usava sette note”.
Voto: 9
Jeunesse (Justine Malle, Francia 2012, 75’). Il film autobiografico della figlia di Louis Malle si risolve in un disastro. La regista inventa un alter ego (nel film Justine diventa Juliette, interpretata da Esther Garrel, seconda figlia di Philippe Garrel – un altro regista) per raccontare i soliti turbamenti adolescenziali: la scoperta del primo amore e il dramma della malattia degenerativa del padre. Giocato sul parallelismo sentimento/morbo, entrambi in evoluzione, il racconto non procede e resta concentrato su sé stesso: si naviga tra dialoghi antinaturalisti e pretese intellettuali, tormenti di prammatica e annotazioni sul cinema (“Rohmer fa schifo”, dice la protagonista). Esordio basato su un equivoco di fondo: che il proprio trascorso personale sia rilevante in sé, tralasciando la sua rielaborazione narrativa e la riscrittura per immagini. Voto: 3
Jungle Love (Sherad Anthony Sanchez, Filippine 2012, 86’). Due amanti, una donna del luogo e un occidentale, si inoltrano nella giungla. Li segue la guida filippina. Le loro avventure erotiche si mescolano con altre figure, tra cui una madre che vede sparire il suo neonato. La giungla osserva e interviene, influenza le vicende, intavola “scherzi” contro i personaggi. Il giovane regista (classe 1984) mescola elementi della tradizione filippina e link al contemporaneo, con militari che percorrono la scena come in Thy Womb di Mendoza, proponendo un oggetto volutamente sfuggente e indecifrabile: tra commedia e grottesco, è basato sulla concezione spirituale della Natura dove – per contrasto – sembra germogliare un sesso solo fisico e materico. L’interpretazione non univoca, la moltiplicazione di senso sono qualità che concorrono al risultato: sequenze colme di idea e talento, come la scena disarmante dell’“orgasmo naturale” da parte del soldato. Voto: 7
Panihida (Ana-Felicia Scutelnicu, Moldavia 2012, 61’). In un piccolo villaggio moldavo un’anziana donna muore, tutti gli abitanti del paese la accompagnano verso il cimitero. Straordinario esempio di cattura della realtà, Panihida (Funerale) apre con le donne anziane del villaggio che spiegano l’immortalità dell’anima, in montaggio alternato con gli uomini che bevono vino fino a sbronzarsi (meravigliosa la fotografia dei volti più scavati). Da qui è un continuo accostamento alto/basso, sacro e profano: guidate dalla figura ancillare della giovane Anisoara, le figure eseguono il rito della sepoltura tra lacrime e canti, fatica e bevute. La regista Ana-Felicia Scutelnicu propone un graduale concentramento di dati audiovisivi che formano la Tradizione, la morte come parte della vita e passaggio verso “altro”. Un risultato di semplicità abbagliante, non solo etnografico ma anche poetico e visivo: il ballo dell’uomo ebbro alla fine sintetizza il film e si imprime nel cuore. Premio migliore cortometraggio e mediometraggio nella sezione Cinemaxxi. Voto: 8
Tutto parla di te (Alina Marazzi, Italia 2012, 84’). Non convince l’esordio nella finzione di Alina Marazzi. Dopo gli apprezzati documentari (soprattutto Un’ora sola ti vorrei), l’autrice milanese affronta il tema autobiografico della maternità: una donna (Charlotte Rampling) torna a Torino, incontra una giovane ballerina assediata da nuove responsabilità materne, cerca di aiutarla riflettendosi l’una nell’altra. Gli stralci più riusciti sono proprio quelli non fiction, ovvero la rielaborazione dello stile evocativo della regista, che trova la singolarità ed evoca effetti spiazzanti, come il filmato sull’“educazione” delle madri nel primo ‘900. Per il resto, nell’intreccio i crucci di queste neo-genitrici suonano sempre di prammatica, a volte oscuri e tragici (la solita sindrome di Medea), a volte in cerca del contatto con l’altro. Voto: 5
Waves (Corrado Sassi, Italia 2012, 71’). Tre uomini in barca, due consapevoli della loro attività criminale, il terzo ignaro a guidare l’imbarcazione. Film emblematico per rappresentare la debolezza della sezione Prospettive Italia: tentativo di fondere il racconto a unità spaziale con l’opera di genere (noir), è in realtà meno coraggioso di quanto sembra, avanza per stereotipi, è un gioco telefonato in cui il più ingenuo resterà vivo. L’approdo sull’isola – poi – annulla anche la “sfida” di girare sul mare (ci ricorda qualcuno) e prepara ad un finale senza guizzi. Voto: 4