TRAMA
Due piccoli delinquenti si vogliono tuffare nel business immobiliare londinese e si mettono in affari col gangster “old school” Lenny Cole. Non l’avessero mai fatto…
RECENSIONI
RocknRolla è cinema ignaro del tempo, paradossale, fuori sincrono. Se già tuffarsi nel tarantinismo nel 1998 era parso sospetto (Lock ‘n Stock) perseverare nel 2000 spiazzante (The Snatch), riprendere il discorso esattamente da The Snatch nel 2009 cos’è? Recrudescenza Pulp, necrosi autoriale, cinefilo (e autoerotico) affresco di tutta una breve, intensa epoca filmica? Chissà. La capacità di giudicare è messa in crisi dalla fattura del lavoro di Ritchie, al quale non si può non riconoscere una certa perizia tecnica, la capacità di scrivere sceneggiature solide (nel suo genere) e qualche trovata ingegnosa. La storia ruota intorno al solito manipolo di delinquentelli di vario e variegato calibro, diversamente furbi, diversamente abili, che si arrabattano intorno a un espediente narrativo orgoglioso della sua gratuità (il quadro rubato, misterioso ed “invisibile”), parlano di niente, sparano battute e proiettili più o meno intenzionali e traghettano in porto la vicenda tra colpi di scena rivelatori, qualche doppio gioco e un paio di flashback a sfasare un po’ la cronologia, che sennò non c’è gusto. Sì, è così. Si può nominare Pulp Fiction senza rischiare il linciaggio intellettuale, tante sono le evidenze (e le, oddio, “citazioni”? il quadro – la valigetta…). E si possono tirare in ballo a ragion veduta molte delle filiazioni più o meno legittime di quel modello (True Romance, Killing Zoe). Rocknrolla è dunque un film cadavere, costruito su un concetto di “modernità cinematografica” già sepolto nel secolo scorso, che gira terribilmente a vuoto (come tutto il cinema di Ritchie, tra l’altro) ma gira sostanzialmente bene. Il sovraccarico informativo dei primi minuti, le panoramiche a schiaffo che traghettano da un’inquadratura all’altra, gli angoli di ripresa inusuali, alcune sequenze non prive di inventiva (il racconto in flashback del cruento inseguimento, tutto in montaggio alternato e con qualche buona idea registica come le “soggettive oggettive fisse” sui volti tumefatti dei protagonisti), l’ironia di alcuni dialoghi con irruzioni di presunta profondità (la metafora del pacchetto di sigarette) contribuiscono a dare l’idea di un film comunque riuscito, o almeno guardabile in senso non deteriore, dove un volatile e per certi versi nostalgico piacere della visione non è inficiato troppo da alcune sviste in sede soprattutto di composizione narrativa: in particolare, ci è parso che Ritchie abbia un po’ esagerato con la coralità del racconto, finendo per frammentare eccessivamente l’azione e rendere inutilmente macchinosi gli sviluppi della/e vicenda/e.