TRAMA
Il percorso artistico e umano di sir Elton John, nato Reginald Kenneth Dwight, a partire dai primi passi nella musica negli anni ’50 alla Royal Academy of Music di Londra, fino ad arrivare agli anni ’80.
RECENSIONI
Prima i Queen, ora Elton John, in futuro David Bowie e chissà chi altri. Si può già parlare di trend: celebrare miti della musica (più o meno) contemporanea omaggiandoli attraverso il cinema. A dare la svolta sicuramente i 900 milioni di dollari incassati da Bohemian Rhapsody. Paragonare quest’ultimo con Rocketman è inevitabile, anche perché i due progetti sono accomunati da Dexter Fletcher, regista ufficiale del film su Elton John e ufficioso di quello sui Queen, in quanto non accreditato e subentrato al licenziamento di Bryan Singer. La stessa mano, o comunque la stessa idea di cinema applicata al biopic, si vede, nonostante l’approccio diverso al racconto dei due film. Entrambi sono infatti progetti nati con la collaborazione dei diretti interessati (o di ciò che ne resta), quindi entrambi sono una abbastanza impersonale e ossequiosa rivisitazione del mito con l’unico scopo di celebrarlo. Nessuna pretesa di veridicità, perciò, ma un vero e proprio monumento per immagini. Con Elton John il biopic diventa quasi un musical (anche se si parla davvero tanto) in cui le canzoni sono parte integrante e sostanziale della rappresentazione della vita dell’artista inglese, messa in scena come una sorta di terapia di gruppo nel momento in cui la star decide di dire addio alla sregolatezza (dipendenza da droga e alcool). Da allora (siamo nel 1990) solo opere di bene, associazioni no profit, aiuti per i malati di AIDS, quindi poca materia narrativa reputata evidentemente interessante e infatti tale periodo è completamente assente (a meno che non si pensi a un sequel, belle canzoni ce ne sono).
Tutti i cliché della caduta e risalita vengono toccati nella poco fantasiosa sceneggiatura di Lee Hall (suoi, tra gli altri, gli script di Billy Elliot, Vittoria e Abdul e dell’imminente Cats), per cui bambino timido, goffo e talentuoso con famiglia anaffettiva (madre carismatica e menefreghista, padre assente, nonna ragionevole ma cauta), diventa ragazzo timido, goffo e talentuoso con grande bisogno d’amore, solo in parte trovato nella profonda amicizia con Bernie Taupin, suo inseparabile paroliere; a seguire la rapida ascesa, grazie alla favolosa prolificità artistica, e l’arrivo dell’ingaggio importante (non manca il poco fiuto di chi scarta pezzi che diventeranno celeberrimi). Da uomo timido, goffo e talentuoso a star planetaria il passo, almeno sul grande schermo, pare essere brevissimo. Di cliché in cliché arriva il manager/amante, fascinoso e predatore, e l’evoluzione in divo capriccioso e isterico. Passaggi che non sono granché motivati, ma è tutto il film che procede per dati di fatto che non vengono mai approfonditi e/o messi in discussione: le radici dell’ispirazione, i meccanismi del business, la gavetta, i sentimenti e gli affetti, tutto passa in rassegna ma viene solo illustrato, tipo “catalogo della star perfetta”. Ogni transizione e stato d’animo più che essere vissuto dai personaggi è dettagliatamente spiegato attraverso battute ad effetto (“devi uccidere la persona che volevano farti diventare”), dialoghi didascalici, siparietti esplicativi e caratterizzazioni macchiettistiche (la famiglia di origine su tutte). Forse l’aspetto più riuscito, quando non gridato, è nel mostrare il trucco e parrucco, con quel look chiassoso e kitsch, come maschera dietro a cui trincerarsi per affrontare in apparente sicurezza il mondo.
La regia trova un suo centro quando irrompe il musical, e l’immaginario evocato può essere finalmente riprodotto, come nella sequenza iniziale che attraverso The Bitch Is Back riporta il John istrionico, paziente del rehab, a contatto con il John bambino (ma le coreografie non brillano per originalità), o quando, nell’esibizione al Troubadour di Los Angeles che gli cambierà la vita per sempre, cantando Crocodile Rock vince la forza di gravità e si libra sopra al pianoforte, oppure nell’inserto onirico molto bobfossiano (All That Jazz è nell’aria) in cui Rocket Man accompagna il ricovero del protagonista per abuso di farmaci e droghe e il suo ritorno sulle scene. Taron Egerton è molto bravo nel calarsi nel personaggio a cui dà anima, corpo e voce (è lui che canta), ma l’effetto è spesso carnevalesco, da festa a tema. Non aiutano sempre le canzoni, meravigliose e usate con intelligenza, ma riarrangiate, quindi un po’ distanti, con un effetto meno dirompente degli originali. L’operazione a suo modo funziona, con tutta probabilità nei teatri troverà la sua destinazione naturale, ma l’agiografia finisce per dominare e di Elton John, della sua incidenza nel panorama musicale mondiale e anche di lui come persona, finiamo tutto sommato per saperne quanto prima.