Avventura, Recensione

ROBIN HOOD

TRAMA

Fine XII – inizi XIII secolo: come Robin Longstride, arciere dell’esercito di Re Riccardo I, divenne Robin Hood.

RECENSIONI

Così è iniziata la leggenda

Blockbuster d’autore con urla in ralenti, flashback sfocati e musiche tonitruanti, Robin Hood si riallaccia da una parte al corrusco medioevo delle Crociate e dall’altra ai combattimenti a otturatore veloce del Gladiatore: Sir Ridley Scott, spalleggiato in sede di sceneggiatura da Brian Helgeland, si mostra più interessato a raccontare come abbia avuto inizio la leggenda di Robin Hood che a descriverne le furfantesche gesta nella foresta di Sherwood. Sono i retroscena e gli eventi che precedono le attività clandestine dell’ex arciere di Riccardo Cuor di Leone a tenere banco per tutto il film. Più un prequel basato sui torbidi antefatti, insomma, che un nuovo adattamento delle leggendarie gesta del “Principe dei ladri”.

Preceduto da didascalie in Middle Age Style con tanto di maiuscole per le parole Legge, Fuorilegge e Storia, Robin Hood si apre con l’assedio del 1199 al Castello di Châlus (episodio nel quale perde la vita il sovrano inglese di ritorno dalla terza crociata) e procede descrivendo le peripezie del valoroso Robin Longstride (Russell Crowe) nel nord della Francia prima e sul suolo albionico poi. Assunta proditoriamente l’identità di Sir Robert Loxley, cavaliere incaricato di riportare in patria la corona del re, Robin consegna il prezioso cimelio nelle mani di Eleonora d’Aquitania (Eileen Atkins), assiste all’incoronazione dello scapestrato Giovanni (Oscar Isaac) e si mette in marcia per Nottingham, dove consegnerà la spada di Loxley al padre Walter (Max von Sydow). Seguono intrallazzi vari che porteranno Longstride a rivestire ufficialmente il ruolo del cavaliere trapassato, innamorarsi della di lui moglie Marion (Cate Blanchett) e scavare nella propria memoria di figlio abbandonato dal padre alla tenera età di cinque anni.

Meglio sorvolare sull’assurdità di una sceneggiatura secondo la quale è possibile spacciarsi per uno dei cavalieri più fidati del re e presentarsi a corte senza essere smascherati, farsi passare per il figlio di un nobile di Nottingham senza che gli abitanti del luogo si accorgano dell’impostura e diventare uno degli uomini più influenti del paese con una sola orazione pubblica (demagogica per giunta). O conquistare una vedova combattiva facendosi sfilare la cotta di maglia e mostrandole il torace, oppure ricordarsi eventi rimossi semplicemente chiudendo gli occhi o tastando il terreno di un villaggio. Quello di Helgeland è uno script che avanza impunemente con sentenze apodittiche quali “Non possiamo ripagare la fortuna con la malagrazia, sarebbe un invito alle tenebre”, “Non so da dove vengo, solo dove sono stato”, “Se è illegale per un uomo provvedere a se stesso, come può restare nel giusto?”. That’s entertainment.

Eppure anche sotto il profilo del divertimento spensierato Robin Hood non brilla certo per scioltezza e godibilità: passaggi di greve simbolismo (mentre prepara l’invasione dell’Inghilterra, Filippo II di Francia si ferisce aprendo un’ostrica e sibila: “Anche un animale morente può essere ostinato”), doppiogiochismi sviluppati a fatica (la cospirazione di Sir Godfrey è trattata lacunosamente) e dialoghi tronfi (avvisato dell’arrivo dell’ex cancelliere Guglielmo, Sir Walter Loxley  esclama: “Nel momento del bisogno arriva l’uomo giusto, il momento di fingere è finito”) intralciano l’andatura del film, cercando di salvare la capra della complessità storica e i cavoli della progressione drammatica. Il culmine della grossolanità è tuttavia raggiunto nell’epilogo, durante il quale la voce narrante di Marion declama la morale della storia: “Una giusta parte per tutti alla tavola della natura”. Sequenze di battaglia girate con “nove macchine da presa normali, una steadicam, una Wescam e un elicottero” (pressbook dixit) e fotografia serica di John  Mathieson (già al fianco di Scott nel Gladiatore e nelle Crociate). Titoli di coda pennellati da Gianluigi Toccafondo.

Non un cappa e spada come il successo anni Trenta con Errol Flynn, né una celebrazione glamour del mito di Robin Hood come Il principe dei ladri con Kevin Costner. Piuttosto un film di guerre medievali, con intrighi di potere e contrapposizione tra nemici interni ed esterni.
Sì, come nel Gladiatore: stesso progetto.
Grandi scene di battaglia ad alta spettacolarità, finto realismo a sporcare i protagonisti, meno patinati della media hollywoodiana ma più machi.
Rispetto al modello (Il gladiatore) Robin Hood è però meno divertente e meno "epico": ciò significa meno guitto, sicuramente, ma anche meno furbescamente efficace.
La leggenda di Robin Hood sfugge alla trama - clamorosa la presenza in sordina e quasi impercettibile del "togliere ai ricchi per dare ai poveri" - come reso evidente dal ruolo marginale dello sceriffo di Nottingham (quasi una comparsata la sua) in un film in cui il vero villain è un doppiogiochista che apre la porta d'Inghilterra al nemico francese. E' su questo piano che si sviluppa il plot.
Del resto si era capito fin dal principio che a Ridley Scott non andava di occuparsi del mito classico di Robin Hood, aveva infatti iniziato la lavorazione della pellicola col titolo "Nottingham", immaginando come protagonista proprio lo sceriffo (interpretato da Crowe), poi relegato in un cantuccio. Visto che la cosa non funzionava si è poi preferito passare direttamente ad un terreno più familiare e virile, i grandi campi di battaglia, gli assedi e gli scontri a cavallo.
Risultato: ben girato, dignitoso, niente di nuovo. Con quel pizzico d'humor e sentimento a diluire azione e drammi che ne fanno dichiaratamente intrattenimento professionale senza grandi pretese.
Essendo un progetto Crowe-Scott abbiamo un Robin Hood fuori fascia d'età (specie considerando che si tratta delle vicende che precedono le vere avventure del fuorilegge Hood), ciò consente però di beneficiare di Cate Blanchett nel ruolo di Lady Marion. Un valore aggiunto (altro che Sienna Miller), cui sarebbe stato giusto risparmiare la caduta di stile dell'arruolamento volontario in guerra (non siamo nel fantasy tolkeniano).
Cast di contorno di tutto rispetto tra William Hurt (sempre più trasformista), Max von Sydow, Danny Houston ed Eileen Atkins. Resta da capire perché Matthew Macfadyen - il patetico Nottingham - continui ad essere pervicacemente ingaggiato per parti che necessitano un laborioso imbruttimento.

La prima parte è magnifica, fa impallidire qualsiasi versione precedente: Scott e lo sceneggiatore Brian Helgeland (o, più verosimilmente, non accreditati autori dello script quali Tom Stoppard e Paul Webb) rileggono la leggenda in modo realistico, ancorandola, da un lato, alla Storia e, dall’altro, ricostruendo puntigliosamente un’epoca attraverso usi e costumi, ambienti, strutture gerarchiche, canti popolari, curiosità e, non ultima, una fotografia grigio/sanguigna che non può che rappresentare odori e umori dell’Inghilterra. Il finale rivela la natura da Genesi, confermando un approccio coraggioso, curato e inventivo. In mezzo, purtroppo, la “leggenda” rientra dalla porta di servizio, sotto mentite spoglie, rinnegando gli intenti: non la leggenda di Robin Hood, ma quella di Hollywood con la sua “filosofia di massa”, dove il popolaresco diventa arringa populista. Robin “deve” diventare il simbolo della democrazia, dell’uguaglianza, delle genti oppresse dai tiranni. Da particolare, l’eroe si fa universale senza soluzione di continuità, con la scorciatoia di imbarazzanti scene madri (la concione durante la riunione di Re e nobili del nord): emblematica, in questo senso, la differenza fra la spettacolarità “credibile” dell’assedio iniziale e quella artificiosa della battaglia finale, fra l’entrata fosca degli orfani della foresta e la loro risibile uscita sui pony. Robin mette piede a Nottingham e il film cambia veste, smette l’epica tragica de Il Gladiatore, si fa più guascone, commedia sentimentale (l’incontro erotico con Marian, spogliando la maglia), ridicolo (la donna-con-i-pantaloni cara a Scott è qui terribilmente fuori luogo), manichea (il villain di Godfrey) quando, prima, s’era fatto apprezzare per i chiaroscuri (né Riccardo solo cuor di leone, né Giovanni solo vigliacco capriccioso). Non è più un problema di forzatura della Storia (Robin e la “Carta dei Diritti”), ma di inverosimiglianza drammaturgica dove si privilegia l’enfasi ammiccante allo studio psicologico: l’eroe, dall’oggi al domani, si reinventa leader politico e ha, da subito, l’Inghilterra ai propri piedi. In DVD 15’ minuti in più che allungano scene preesistenti e presentano una sequenza inedita (Robin rapito dagli orfani).