Commedia

RIUNIONE DI FAMIGLIA

TRAMA

Si stanno per celebrare i 750 anni della nascita di una piccola città danese e un famoso cantante d’opera, nato e cresciuto lì, torna a casa per l’occasione: il giovane Sebastian scopre finalmente chi è suo padre.

RECENSIONI

Ciò che resta del troppo lodato e poco compreso Festen, di cui questo Riunione di famiglia - per volere della distribuzione italiana (si pecca anche in Teodora) - dovrebbe essere Il lato comico, è, da un punto di vista strettamente narrativo:
1) il La del racconto (il topos del ritorno indotto da un festeggiamento - qui i 750 anni di fondazione della cittadina, là il sessantesimo compleanno del capofamiglia - );
2) il topos cardine concreto (la sala da pranzo, dove, all’ingessata compostezza delle apparenze dettate dal galateo sociale, si sostituisce la – diversamente - cruda realtà dei fatti);
3) il topos simbolico del conflitto (il rapporto colposo padre/figlio).
Sostanzialmente: la messa in scena di un rituale di festa diviene territorio di scontro, pettine al quale vengono i nodi che sfaldano il teatrino. Epater les bourgeois o, come putrefatta cantilena critica vuole, c’è del marcio in Danimarca? No, le colpe dei padri differiscono notevolmente e i toni si adeguano: Riunione di famiglia appare da un lato una sexy pochade dal potenziale provocatorio, mai calcato, più spesso, anzi, imploso, dall’altro un divertissment parashakespeariano, con gli equivoci dei personaggi a mescolarsi (il momento migliore: la doppia rivelazione al ricevimento, con quello scambio di sguardi con il quale le agnizioni si incrociano), le allusioni, le passioni che fanno ridere e piangere senza mai trasformarsi in farsa sboccata o in tragedia vera. Un cinema riconciliato e insieme più maturo (nel senso che diremo), ars gratia artis: nessun fine posticcio, nessun sassolino da togliere, solo puro piacere della narrazione e della (non) forma [1] . Il cinema di Vinterberg, arrancando, va dove lo porta Von Trier: Riunione di famiglia segue i passi de Il grande capo, si apre con una voce over pressoché identica a quella della commedia di Von Trier (dimenticandosene poi per tutto il resto del film), omaggia quest’ultimo esplicitamente attribuendo alla figura del padre (un grande artista) la sua fobia più celebre [2]. Dopo Festen - che ha il solo merito storico di porsi come il primo prodotto della provocazione gratuita Dogma ’95 e che, a ben guardare, è il vero mostro della filmografia del regista, l’unico con canoniche (quanto frustrate) ambizioni artistiche, l’unico serio (serio, ribadiamo) tentativo di agganciarsi alla tradizione letteraria scandinava, soprattutto teatrale – il nostro ha tentato di emanciparsi dal padre putativo con il flop/scult Le forze del destino; a Von Trier è poi dovuto tornare, affidandosi a una sua sceneggiatura per Dear Wendy e percorrendone sottomesso il solco, ora, con questo film. Vintenberg, adesso che ha preso la tangente con decisione, adesso che ha ucciso l’Ambizione e lucidamente individuato i suoi limiti, si consacra all’alfine maturo prodotto minore e lo fa in piena coscienza; di più: pare proprio che il suo essere minore questo film lo rivendichi, laddove l’autore stesso confessa, ad ogni sequenza, il suo essere un’abbondante decina di gradini sotto il modello inizialmente agognato (Lars Von Trier) e a ciò rassegnandosi. Ci siamo: Riunione di famiglia è un film rassegnato di un regista rassegnato e che fa di questa rassegnazione la propria poetica, un’opera sbilenca in cui Vinterberg calibra al millimetro fino a dove spingerla fuori dal quadro. Meta-suggestioni? Magari sì, resta il fatto che Riunione di famiglia non nasconde la sua inconsistenza, il suo dipingersi balletto di equivoci di sintesi eccentrica tra stilizzazione caricaturale dei personaggi (il protagonista, ritagliato da una rivista per ragazzine) e forme del realismo tracciate dalla mdp, crogiuolo sfilacciatissimo di situazioni comiche anestetizzate dal freddo di un sguardo che pare avere il carattere anaffettivo dello scazzo anziché la glaciale distanza dell’entomologo, attratto più dalla superficie gretta e pruriginosa del meccanismo narrativo (che fatica a gestire) che dagli interstizi che (in) questo crea [3].
Che il gioco sia appena iniziato? Che Vinterberg cominci a divertirsi sul serio?

Giulio Sangiorgio & Luca Pacilio


[1] La mdp si muove ancora secondo Dogma, sebbene il resto delle norme non sia assolutamente preso in considerazione.

[2] Tra le paranoie di Von Trier è celebre la sua paura di volare.

[3] Tanto che nel finale, quando Sebastian intima a Maria di non andare più a letto con i suoi genitori, la battuta, con la specificazione “Nemmeno con mia madre”, apre una possibilità legata ad un’altra specificazione: Maria, mentre racconta della morte della propria madre, incolpa la propria disattenzione, favorita dall’essersi fermata da una vicina a parlare. Che la vicina sia la madre di Sebastian e quell’accento sul verbo parlare non sia altro che indice di una bugia, di una scusa trovata al momento?