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Ritratti di società in nero

Il genere fantastico, connotato per la sua libertà espressiva da forti valenze metaforiche, non ha mancato di offrire una visualizzazione della società USA in questi anni di passione, reagendo in tempo reale alle paure collettive, alle guerre, ai catastrofici attentati, al ritorno in patria delle bare dei soldati, alle menzogne dei potenti. Oggi, la vicinanza di tre blockbuster che mettono in scena tre diversi incubi induce a confrontare le coordinate estetiche e narrative ad essi impresse da Spielberg (La guerra dei mondi), Lucas (Star Wars III) e Nolan (Batman begins), due americani e un inglese al lavoro nell’officina Warner. Con un esito singolare: la proposta più tradizionale e conforme alla Historia oficial è del regista più acclamato; la più sfiduciata ed estremistica di quello reputato meno fantasioso; la più rigorosa e complessa del meno anziano.
Spielberg si produce in uno schema collaudato, ma blindato in uno sviluppo burocratico: un quadro introduttivo per favorire l’identificazione di spettatore e protagonista; un colpo di scena di grande impatto che travolge l’uno e l’altro; una corsa contro il tempo e avversari apparentemente imbattibili. La vicenda si svolge in un eterno presente privo di ambiguità: il passato non ha rilievo, la comunità non esiste se non come massa in preda alla disperazione, le pregresse responsabilità non contano nulla; tra la famiglia e l’esterno c’è un vuoto riempito dalla fila di bandiere Stars and Stripesesposte a fronteggiare un nemico invisibile e pronto a colpire. La guerra dei mondi è una corsa a perdifiato in fuga da una generica minaccia, ubiquitaria e innominata, alla nostra comune umanità da parte di esseri che umani non sono. La fuga ha per destinazione imperativa la riunificazione degli affetti famigliari: la messa in salvo della prole per ricondurla alla madre.

Lucas ha di fronte il problema di un tessuto narrativo privo di sorprese; se l’unica esigenza pare quella di annodare i fili del racconto ancora sciolti, e il regista esagera nel ricamare sulle giunture che accorpano l’ultima fatica agli altri pezzi dell’affresco diacronico, egli gioca pure di dinamica visiva e di ritmo – col montaggio eccezionale che riscatta le fatiche della sceneggiatura – e punta sul capitale simbolico ed emotivo.

Anche Nolan raccoglie la sfida del già noto. Entrambi i film sono dei prequel: scontano il modesto interesse del pubblico per il “cosa accadrà?” e si concentrano sul “come” e sul “perché”; Lucas arrancando qua e là, Nolan esibendo battute brillanti e sarcastiche, dialoghi rapidi ed espressivi che evitano il rischio –forte, in script costretti a semplificazioni brutali – di affondare nella presunzione o nella banalità più spinta.

Sia in Batman begins che in Star Wars III il passato precipita sul presente e lo ingombra con detriti e ipoteche: la realtà è un tessuto di relazioni, di intrighi, di personalità e poteri che si confrontano e si scontrano, di fedeltà che esigono di essere onorate, di un passato che non passa. Ma Lucas, ancora una volta, rimanda a una lettura complessiva della sua favola trentennale per una piena percezione di segni tanto stratificati; e si può dubitare che Episodio III sia valutabile come un’opera in sé compiuta. Nolan, senza debiti di sorta verso i precedenti episodi, adotta il ricordo e il flashback per penetrare nel passato che perseguita il protagonista; strumenti tradizionali, dosati con misura ed efficienza.
Abbondano gli scontri, in tutti e tre i film, ma l’approccio è radicalmente diverso.

In Spielberg l’intento è legato a un impatto visivo dal significato inequivoco: lo spesso strato di polvere che ricopre Ray Ferrier, sfuggito al primo attacco alieno, è quello che ammantava chi si era trovato l’11 settembre presso le due torri. Tuttavia, dietro la perizia del concertatore il drammaturgo latita: alcuni dei momenti più belli sul piano visivo rispondono a un’esigenza grandiosamente spettacolare, ma l’allusività tematica non può assicurare la resa di una sequenza quando è subordinata a un effetto di mera esclamazione.

Anche Lucas imprime ai conflitti fra i protagonisti un marcato valore simbolico, ma in direzione opposta: se in Spielberg il nemico è un alieno, in Lucas esso è a fianco a noi, è il nostro amico o maestro, o è addirittura dentro di noi. Con maggior durezza, per Nolan noi stessi alimentiamo per egoismo o miopia le forze che minano l’equilibrio comunitario. Sicurezza e Ordine, per i quali si batte l’esercito di Spielberg, in Lucas sono le trappole di un disegno malefico, in Nolan le fasulle rassicurazioni somministrate a una massa impaurita e chiusa nel proprio egoismo.

Ma Nolan è più radicale nella cura dell’immagine: se in Star Wars III gli scontri sono pienamente leggibili dallo spettatore, in Batman begins c’è come una ruvida ostilità verso il pubblico: non soltanto, con coraggiosa determinazione registica, l’uomo mascherato compare solo a metà film, ma un montaggio apparentemente isterico nega con ostinazione il piacere dello sguardo: lo spettatore non è messo in grado di ammirare l’eroe che sconfigge i suoi avversari, ma può cogliere solo grovigli di furore, lacerti di violenza, frammenti di tenebra.
L’universo di Spielberg è una famiglia infranta e da ricostituire, che verrà riunita sotto lo sguardo affettuoso dei nonni. L’inopinata ricomparsa del figlio maggiore testimonia poi l’incapacità del regista a misurarsi effettivamente col tema della morte: essa può riguardare solo i manichini che scendono nel fiume. Invece, in Lucas la famiglia viene distrutta dall’interno, e in Nolan è impossibile da ricostituire: l’eroe, che in Spielberg trionfa attorniato dagli affetti, per gli altri due è infelice e solo, nella caduta come nell’apoteosi.

Il ventaglio cromatico pone a parte Star Wars III, opera accesa e corrusca, e avvicina La guerra dei mondi e Batman, per la dominanza dell’azzurro e del nero con improvvisi sprazzi ferrigni. Ma le immagini in Nolan sono spesso plumbee, dai colori abbuiati, perfino tetre; la sua Gotham City non è favolosamente notturna ma vira verso un inatteso naturalismo. Quello che potrebbe apparire pauperismo cromatico o ascetismo dell’immaginazione, è invero un percorso di rigore; e se il riferimento alla città perpetuamente battuta dalla pioggia di Blade Runner è un luogo comune – comunque emozionante – la metropoli di Nolan ricorda anche la città disperata e violenta, abbandonata a se stessa, di 1997: fuga da New York.

In Spielberg, la minaccia viene da “intelletti invidiosi” del nostro benessere e della nostra armonia sociale. Quanto a quella affettiva, siamo in tempo per recuperare. La fonte della paura è estranea al nostro mondo, e la vaga determinazione del rischio incombente autorizza la degenerazione delle categorie cognitive: loro sono il Male, perciò noi siamo il Bene, come conferma il fatto che ci vogliamo bene. La legge amico/nemico rassicura le coscienze e le rende impermeabili al dubbio, determinate nell’azione: chi si attenti a mettere a rischio il nostro modo di vivere deve essere fermato. In Lucas e Nolan la paura procede invece dall’interno del gruppo: il cuore di tenebra alberga nell’uomo, non in entità extraterrestri, né vi è un deus ex machina che possa salvarci: non il cavaliere del Lato Oscuro, ma neppure il cavaliere oscuro che non può, con la sua azione di super-gendarme, fermare l’escalation della violenza o affrontarne alla radice le cause.

Nelle scene di Batman begins in cui vengono illustrate le armi e le meraviglie tecnologiche dell’uomo pipistrello, il tono didattico toglie ogni magia e riconduce il personaggio di fantasia alle escandescenze dell’industria bellica. Batman è concepito da Nolan non come eroe del bene, ma come macchina da guerra, somma e sintesi di tutte le altre; la sua vestizione viene sovrapposta – in una scena che probabilmente è la chiave di volta del film – a quella dell’orribile Rambo: impressionante raffigurazione di quella “moralità della violenza” identificata come uno dei cardini dell’anima americana.
Batman begins mostra una società avida e ipocrita ai piani alti, miserevole e depredata in quelli bassi. La filantropia dei miliardari Wayne corrisponde al sogno di Keynes di garantire una crescente giustizia sociale grazie al senso di responsabilità collettiva delle classi dirigenti. Ma quel sogno è fallito: il capitalismo può sopportare solo una certa dose di equità, e soltanto se vi è costretto da un pensiero capace di contrastarlo; quando ciò non accade, mostra il suo autentico volto: una megalopoli violenta e squallida, una vergognosa società di casta, con gli ultraricchi che vanno all’opera mentre i miserabili patiscono il freddo e la fame, i boss mafiosi che dettano legge, i magistrati complici o succubi, le forze dell’ordine inadempienti o colluse. Lo sfruttamento dell’uomo sull’uomo domina senza ritegno. “Crea la miseria, e avrai creato un criminale”, dice Ducard; estendi la miseria mentre arricchisci te stesso, e avrai migliaia di criminali alla porta di casa. Benché l’ideologia dichiari il contrario, è un sistema sociale teratogeno quello che accetta folli disuguaglianze economiche quale conseguenza necessaria del libero gioco della brama d’accumulazione.
L’incubo in cui ci immerge Star Wars III è quello dell’alba di un impero: l’affermazione d’una larga supremazia militare; la sottolineatura della minaccia terroristica; il ripudio dei vincoli della diplomazia; la tolleranza di un’elevata instabilità internazionale; l’individuazione di un capro espiatorio per le insicurezze e le paure dei sudditi; la lotta al terrorismo come pretesto per la creazione di uno stato d’eccezione permanente. La comunità viene ridotta a spazio di una guerra contro un nemico impalpabile e onnipresente: se il pericolo è dappertutto, bisogna difendersi da qualsiasi minaccia; e, in nome della sicurezza, la concentrazione del potere non è gran male. La scena in cui il Cancelliere, con un discorso gonfio di retorica securitaria, assume i pieni poteri fra gli applausi del Senato è l’equivalente dell’approvazione, con il voto unanime del Congresso, del Patriot Act e del Domestic Security Enhancement Act, i provvedimenti con cui lo Stato di diritto abdica in favore dello Stato di polizia: un potere immenso sorge dalle rovine di una democrazia impotente contro i rischi di degenerazione che si porta dentro, e pronta a gettarsi nelle braccia di chi ne sta decretando la fine.
Star Wars III è melodramma ridondante e passionale; Batman begins è psicodramma introverso e sottile, che invece di scoppiettare nel tripudio degli effetti speciali – occultati dal realismo della messinscena – implode nel volto tormentato di Christian Bale. E se la modulazione dell’elemento sentimentale conosce più di un impaccio, proprio nel momento della sua maggiore flagranza (in Lucas) rivela una parentela con lo stile di Sirk, che sublimava gli stereotipi di cui abbondava. I colori troppo accesi o luttuosi di tramonti, notti e abiti; i dialoghi troppo banali che esprimono la speranza di una banale serenità; il barocco scenografico di cieli e grattacieli, dirupi, vulcani e vallate dove i protagonisti si affannano votati alla sconfitta; l’immensa coreografia delle battaglie; la stretta vicinanza con una pittura fiammeggiante e funerea: tutti elementi che esaltano l’invincibile solitudine dei personaggi, il male di vivere che li opprime, l’impossibilità della felicità.

Lucas e Nolan rifiutano di curare, con l’emozione dello spettacolo, lo sgomento per lo sgretolarsi di quei valori in cui lo spettatore sarebbe disposto a credere: le bandiere al vento, la famiglia riunita, l’onestà premiata, l’abnegazione vittoriosa, il Bene trionfante, l’esercito provvido, la democrazia saggia e solida, il Sistema che garantisce integrazione sociale (con il proletario accolto – dopo aver salvato la figlioletta – nella dimora altoborghese dei suoceri). Una cornucopia in cui Spielberg vede la via d’uscita dall’incubo; gli altri due mostrano, di quella messe, la natura illusoria o fraudolenta. Peggio: nel futuro che visualizzano, essi additano in noi i registi cinici od ottusi, machiavellici o inconsapevoli, dell’orrore in cui saremo precipitati.
In Star Wars III l’apprendistato del protagonista fallisce: egli diviene l’amministratore di una cosmica violenza finalizzata al mantenimento del nuovo ordine; ed è ammirevole la drasticità con cui viene conferito alla narrazione un suono cupo, un’oscura ambiguità che rispecchia grandemente lo spirito del tempo. In Batman begins l’apprendistato ha successo, ma fa dell’eroe uno strumento privo di gioia al servizio di un’astratta concezione legalistica, che ha sostituito nel suo cuore la filantropica utopia di giustizia della quale si era nutrito: la speranza di Bruce è quella di un uomo fuori di testa – come riconosce lui stesso – che pretende di combattere il male da solo, o con i pochi che ne condividono l’ansia. La distanza che lo separa dal diventare un interventista armato a tutela di un ordine qualunque è labile, sempre messa in gioco dalla sua instabilità emotiva. I conflitti interiori che l’hanno indotto a costruirsi un’altra identità per non soccombere ai propri incubi, l’hanno anche spinto ai bordi della schizofrenia: non c’è garanzia che non precipiti prima o poi nella follia trasformandosi in un giustiziere della notte, serrato in una corazza di risentimento e di furia.

Il nero approdo della fantasia dei due autori si colora nel più anziano di tinte apocalittiche. Episodio IV venne concepito, durante l’incubo del Vietnam, da un cineasta liberal che scelse quali mèntori un eremita e un nanerottolo diffidenti della violenza e rifiutò così il bellicoso Padre assegnatogli dalla storia; un Padre che poteva essere introiettato solo a patto di essere sconfitto. Sappiamo come poi andarono le cose, e chi sconfisse chi: il prosieguo della Saga non è “il futuro” bensì il nostro passato, vecchio e disutile. Negli anni ’70 Lucas voleva accogliere la figura del Padre dopo averla redenta. Oggi ci dice che nessun riscatto è possibile; che la sete di potere germina da un sogno di libertà, di giustizia, d’amore; che i ribelli vittoriosi, dopo il Ritorno dello Jedi, instaureranno un nuovo Impero. In Nolan balugina invece una speranza: l’impegno quotidiano e paziente, la mente in perpetua tensione per non lasciarsi vincere dalla paura o dalla rabbia, la fiducia nell’uomo sempre rinnovata nonostante le innumerevoli delusioni, l’affetto che rinuncia al possesso, la consapevolezza che il male è intorno a noi ma anche dentro di noi, che non dobbiamo rassegnarci a esso ed essere pronti a ravvisarlo nelle pieghe di quanto abbiamo di più caro.

E’ davvero una bella sorpresa che riflessioni critiche sulle nostre società inique e indifferenti provengano da pezzi del gran meccanismo produttivo del cinema USA: dal cuore dell’impero giunge, imperfetto e combattivo, l’invito a non cedere alle sue lusinghe, alla sua retorica, alla sua terrificante pietà.