
[Collaboratore di «Film Tv» e «Popolare Network», scrive abitualmente su «Segnocinema» e «Nocturno Cinema». Autore di una monografia su George A. Romero (1998) e, insieme a Simone Emiliani, su Walter Hill (2001), nel 2003 ha pubblicato, per i tipi di Le Mani,Cinema poliziesco francese]
A proposito di Il silenzio del mare (Le silence de la mer), in Cinema poliziesco francese (Ed. Le Mani, Recco 2003) affermi che “la forza morale del racconto finisce per scaturire naturalmente dall’incontro di due tensioni opposte”: la “narrazione classica” e la “messa in scena moderna”. Potresti indicarci attraverso quali scelte stilistiche Melville riesce a saldare le due istanze?
In questa come in altre occasioni Melville parte da un racconto letterario in cui però mostra lo stesso approccio che avrebbe avuto se avesse dovuto girare una storia di gangster e quindi con uno sguardo rivolto alla funzionalità tipica del cinema americano, che è un po’ il suo modello. Da una parte c’è questa capacità di essere assolutamente trasparente nei confronti di ciò che vuole raccontare, in diretta sintonia con lo spettatore, di farsi immediatamente capire senza eccessive simbologie, dall’altra la natura stessa del racconto di Il silenzio del mare, pellicola molto particolare rispetto ad altri suoi film, lo ha portato ad avere un tocco d’autore in più, ad esempio possiamo dire che è un film in cui la componente teatrale è molto insistita perché ci sono diverse scene girate in spazi particolarmente piccoli e angusti. Melville si è fatto un po’ le ossa con questo tipo di “cinema da camera”, tant’è che anche in film successivi, certamente di maggiore consapevolezza spettacolare e a più alto budget, alcune delle scene più belle sono state girate in spazi piccoli, sto pensando alle due scene memorabili all’interno della camera spoglia di Le deuxième souffle, dove si vede la pistola nascosta sotto l’armadio etc., riportano a questa concezione molto teatrale dello spazio che lui aveva imparato girando Le silence de la mer.
Labbra proibite (Quand tu liras cette lettre) è ritenuto un film minore e alimentare dallo stesso Melville. Eppure, anche in questo lavoro, il cineasta francese mostra doti non comuni nella direzione di un cast potenzialmente pernicioso e nella gestione dello sguardo. Qual è la tua opinione su questo film?
Detto in tutta sincerità non è uno dei miei Melville preferiti, anche perché in alcuni momenti mi sembra girato con lo stile un po’ calligrafico à la Mario Soldati, anche se in realtà non c’entra molto. È un mélo che forse non era il genere privilegiato da Melville essendo egli un regista particolarmente virile, non che questo gli impedisca di creare o immaginare personaggi femminili molto intensi o delle possibili storie d’amore, però sono sempre situazioni che rimangono estremamente asciugate. Questo invece era un film che forse aveva bisogno di una passionalità maggiore, che non è nelle corde di Melville, quindi direi che da questo punto di vista resta un episodio irrisolto e un bel film mancato nel quale ci sono delle scene peraltro interessanti ma che in definitiva rimane un’anomalia all’interno della sua filmografia.
Le jene del quarto potere (Deux hommes dans Manhattan), come giustamente sostieni, “rende omaggio alla metropoli noir per eccellenza, New York”, e in tal senso è forse anche il film più nouvellevagueiano del regista. Non trovi che la scarsa tensione narrativa e l’assenza di una reale progressione drammatica derivino proprio dal fatto che Melville rappresenta Manhattan come una sorta di “teatro di tenebra” dove non si danno variazioni di tono? Detto altrimenti, non è forse il fatto di considerare New York la città “cinénoir” per antonomasia a fare di Deux hommes un film di sole atmosfere e silhouette sfuggenti?
Deux hommes dans Manhattan è un film che nasce e muore con l’immagine che Melville si è fatto della città noir per eccellenza. Non è un film realistico, è la proiezione di New York secondo l’immaginario personale del regista che poi è un immaginario totalmente cinematografico, o meglio – lui avrebbe detto – totalmente mitologico, quindi New York come città del mito, nonostante abbia diretto il film tra le vere strade della città. Ci sono dei registi che, per fare un esempio, hanno falsificato New York come – mi viene in mente – Jules Dassin che alternava scene di forte realismo a scene espressioniste o totalmente rifatte in studio, Melville di fatto non prende né una strada né l’altra nel senso che gira effettivamente a New York ma è come se New York fosse comunque filtrata attraverso l’occhio della sua m.d.p. e basta e quindi diventasse irreale ma nello stesso tempo anche molto vera dal punto di vista cinematografico, e questo costituisce anche il limite del film perché questa sorta di amore folle che lui ha per l’immagine urbana del noir che ritrova in questo tipo di descrizione si mangia in realtà tutti gli altri motivi di interesse del film che gira intorno alla Grande Mela senza riuscire, proprio a causa di questa tendenza all’astrazione, a raccontare una vera e propria storia.
Sempre nel tuo volume scrivi che I senza nome (Le cercle rouge) è un film “un po’ didascalico nel suo determinismo”, nel senso che “proprio la sua ineluttabilità finisce per essere prevedibile”. Sicché, a tuo avviso, finisce per essere “un polar più di superficie, dove sono latitanti la passione per l’intreccio e le dinamiche morali tra i personaggi”. Ora, dal momento che I senza nome ha un’impostazione apertamente e rigorosamente convenzionale, “formulare”, quasi proppiana, rimproverargli di essere prevedibile non significa forse rimproverargli di essere riuscito nel suo intento, cioè nel rappresentare un film-repertorio, un’autentica morfologia del noir?
Messa in questi termini potrebbe sembrare che io abbia stroncato il film, in realtà lo amo molto. Questo film arriva dopo un percorso melvilliano preciso verso l’attingimento di un’astrazione totale, di un’ asciuttezza assoluta nei codici dei generi cinematografici. Melville raggiunge un apice rappresentato da Le samouraïcon questo procedimento e I senza nome è la prima tappa superato questo apice, quindi il film diventa una sorta di estremizzazione dell’obiettivo che era già riuscito a raggiungere. Da questo punto di vista è vero che la critica che gli facevo velatamente diventa in realtà il senso autentico del film, la critica dimostra che è riuscito a fare quello che voleva, però a quel punto, dopo Le samouraï, secondo me doveva forse cercare di abbinare questa astrattezza che era riuscito a raggiungere con un ritorno ad una narrazione forte. Se Melville fosse riuscito a trovare un punto di contatto, una sorta di equilibrio trai due poli avrebbe probabilmente fatto il suo capolavoro, e invece credo che questa occasione gli sia leggermente mancata. Detto questo Le cercle rouge è una pellicola che non si può non amare per miliardi di motivi, uno tra tutti il discorso del rito all’interno del film, anche se è un elemento, ancora una volta, sviluppato meglio in Le samouraï che non a caso si rifà al codice dei samurai che facevano del rito una cosa non ripetitiva e non vuota come la potremmo considerare noi occidentali. Poi non va dimenticata assolutamente la struttura, che ricorda tantissimo la costruzione classica del western, e possiamo tranquillamente affermare che I senza nome è indubbiamente il suo film più western.
Jean-Pierre Melville è considerato il più américain dei registi francesi, eppure i suoi film, anche se dichiaratamente influenzati dall’estetica noir americana, sono segnati da una profonda specificità culturale. Secondo te quali sono i tratti più marcati di questa specificità dal punto di vista cinematografico, e in che modo sono stati assimilati o filtrati dalle esperienze cinematografiche a venire (non necessariamente francesi)?
Queste sono due domande particolarmente difficili, forse è più facile la prima riguardante la specificità della poetica melvilliana che poi era uno degli obiettivi che voleva avere la parte principale del mio libro, che è un capitolo dedicato al cinema di Melville. Io mi sono sforzato di dimostrare che in realtà anche definirlo “il più americano dei registi francesi” è molto riduttivo, e forse non è neanche così vero; la realtà è che il cinema di Melville è il cinema di Melville punto e basta, è come se fosse un’isola all’interno di un arcipelago che comprende il cinema francese classico (perché non dimentichiamoci che comunque aveva un’attenzione molto forte anche nei confronti di certo cinema francese e lo dico nel libro, lui scherzava sul rigore stilistico di Bresson ma in realtà, soprattutto all’inizio della sua carriera, era molto vicino a questo stile – di qui la sua famosa battuta “Non è Melville che bressonizza ma è Bresson che melvillizza” che traduce questa attiguità -). Il cinema di Melville non arriva dal nulla neanche da un punto di vista francese, d’altro canto nonostante il suo rispetto e il suo amore esageratamente dichiarato per il cinema americano classico comunque non è neppure avvicinabile a questo tipo di modello, a partire dalla scrittura dei personaggi. I personaggi di Melville sono dei personaggi che uno sceneggiatore americano non si sarebbe potuto permettere di scrivere perché troppo complessi, troppo pensati, fin troppo freddi anche in certi loro sviluppi e certe loro determinazioni, penso soprattutto ai film noir – è ovvio che L’armata degli eroi è un’altra cosa perché c’è dentro un patch di autobiografia, c’era una guerra, c’è dell’ideologia e dunque altri tipi di discorsi –. Melville ha fatto un ragionamento sulle maschere, sulla mitologia etc. però in questo non rientra davvero in nessuno dei percorsi che lui ha dimostrato di amare, né quello più specificamente francese né quello legato alla Hollywood in bianco e nero che tanto ammirava.
Da questo punto di vista Melville veramente è solo Melville. E questo discorso risponde anche alla seconda domanda: in realtà non c’è stato neanche nessuno che ne abbia raccolto l’eredità. Di fatto penso che sono stati tanti ad omaggiarlo, i casi più eclatanti The Killer di John Woo, Léon di Luc Besson, però si tratta solo di omaggi perché i film sono completamente diversi da Melville, non “melvillizzano” neanche, sono tutt’altro. Io credo che ci siano un tocco e uno stile talmente particolari nel cinema di Melville da renderlo difficilmente riproducibile adesso, probabilmente non sarebbe neanche considerato spettacolare questo tipo di cinema, non avrebbe una storia economica perché sarebbe come dire “voglio fare un cinema d’azione d’autore”, sembra un controsenso, un paradosso e infatti Melville è un paradosso nel senso che esiste solo lui, cioè questo tipo di cinema qui lo ha fatto solo lui. Ad esempio John Ford è un grandissimo regista, forse il più grande regista della storia del cinema, però il suo è un cinema di tipo classico, poi all’interno di questa classicità esiste un tocco alla John Ford che appartiene solo a lui. Quello di Melville è un cinema moderno, classico, a volte barocco, astratto ma nello stesso tempo narrativo, è un cinema che gioca con moltissime suggestioni ma alla fine non è una semplice sintesi tra queste suggestioni, è qualche cosa di più, e questo qualche cosa di più è Melville. Da questo punto di vista non ha né un passato né un futuro, ma esiste solo lui.
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