TRAMA
Colm – una moglie, due figli, un rapporto difficile con il padre recentemente scomparso – inizia a frequentare Jay, un ragazzo che si prostituisce.
RECENSIONI
I coming-of-(middle-)age ricavati intorno a una (nuova) iniziazione sessuale non sono certo merce rara, a maggior ragione se non perdono occasione alcuna per dare sfoggio della propria ordinarietà, proclamata nel nostro caso già dal titolo. Rialto infatti, nonostante la sua vocazione squisitamente orientata al ritratto di personaggio, opta per l’inevitabile spersonalizzazione di un eponimo geografico (si tratta di un quartiere poco centrale di Dublino), laddove l’opera precedente del regista, di simile impianto, sceglieva – in modo sì paradossalmente più classico – di presentarsi con il nome della protagonista, Daphne. Una storia di quotidiana suburbanità, dunque, il dramma di una vita qualunque, quella del senescente Colm – del quale non abbandoniamo per un secondo il punto di vista – come quella del diciannovenne Jay che gli si vende, suo chiaro riflesso e contraltare. Due padri di due generazioni figlie una dell’altra, entrambi alla ricerca di un’identità nel quartiere-matrice dove hanno sempre vissuto, esso stesso vittima – almeno onomasticamente – di eredità schiaccianti (deve il nome a un Rialto Bridge sovrastante il Grand Canal, copia del ben più celebre ponte veneziano – fa sorridere il debutto del film al Lido). Così Colm, alla morte del padre che non ha mai davvero conosciuto, si riconosce suo infelice calco, perpetuante i medesimi errori, la sua distanza, le sue bugie, la sua mancanza di comunicazione con la famiglia (Colm non è capace di usare il cellulare nuovo che gli ha preso la figlia): un cortocircuito che esplode quando gli viene negata l’identità anche al di fuori dell’ecosistema familiare (viene licenziato dopo una fusione perché il suo lavoro – in un porto emblema di collegamento e comunicazione – “non esiste più”). È allora nel goffo e ambiguo contatto con Jay – anch’egli alle prese con l’affermazione della sua dignità di padre, laddove i genitori della fidanzata minorenne lo ritengono un teppistello irredimibile – che Colm ritrova un’oasi di verità e in seguito la forza per affrontare la propria inettitudine e il circolo vizioso dell’ereditarietà confrontandosi con suo figlio, coetaneo di Jay. Su questo principio di catarsi, con Colm solo e rinnegato tra le macerie della sua famiglia ma risoluto nel ripulire il recinto del suo giardino dai rottami della sua vecchia vita, il film sfuma – ribadendo la discrezione da veduta più globale del titolo, non necessariamente affezionata al completamento dell’arco del suo personaggio – concedendosi uno sbilanciamento verso la speranza, con lo stacco al nero finale che sopraggiunge a nascondere il rumore di una porta che si apre fuori campo.
Di concerto con l’ordinarietà delle vicende rappresentate, il tono del film si declina su un registro misurato e mai ricercato, riguardoso e mai appassionato, opponendo al déjà-vu e alla didascalia incombenti un encomiabilmente delicato tratteggio dei personaggi, servito dalle ottime interpretazioni di Tom Vaughan-Lawlor (agli antipodi del suo Ebony Maw, il braccio destro (sguantato) di Thanos) e Tom Glynn-Carney (che a Venezia s’era intravisto, tra una lastra di metallo e l’altra, neanche un’ora prima nell’Enrico V di Netflix). Dosate con sapienza, non mancano però scene che contrappuntano l’a mezza voce generale con più vigorosa partecipazione del mezzo: l’urlo disperatamente muto di Colm in campo lungo tra le gabbie e i rumori delle impassibili gru del porto; la (fallita?) regressione edipica parricida di un tentato annegamento in una marea troppo bassa.