Retrospettiva John Huston

Per quanto ne dicano certi poeti, la Natura non è tanto l’interprete eternamente soave di se stessa, quanto la semplice fornitrice di quell’astuto alfabeto per mezzo del quale, selezionando e combinando come crede, ciascun uomo legge la propria peculiare lezione secondo il proprio cervello e stato d’animo.
_x000D_ Herman Melville, Pierre
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_x000D_La giusta maniera di fare, lo stile, non è un concetto vano. È semplicemente il modo di fare ciò che deve essere fatto. Che poi il modo giusto, a cosa compiuta, risulti anche bello, è un fatto accidentale.
_x000D_ Ernest Hemingway

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_x000D_Dopo Nicholas Ray, la seconda grande retrospettiva del TFF di Gianni Amelio è dedicata a John Huston. Una scelta apparentemente in continuità (registi quasi coetanei, che operano negli stessi anni e nello stesso contesto produttivo, per quanto la carriera di Huston sia stata più lunga e fortunata di quella di Ray, spesso incompreso e ridotto al silenzio gli ultimi anni della sua vita), ma che si rivela in realtà di segno opposto, per quanto Ray e Huston condividano alcuni temi comuni. Se il cinema di Ray è un cinema radicale, disperatamente alla ricerca di una verità interiore dei suoi personaggi che diventa immediatamente una verità del cinema, Huston è un cineasta mistificatore, convinto della natura fondamentalmente mendace del cinema, che quindi mette in scena vicende spesso incentrate sull’inganno, la bugia, le ritualità svuotate di senso, le apparenze e le illusioni spesso consapevoli. Un cinema costruito sulla (dis)illusione e la menzogna quindi, e sulla coscienza che il cinema è il mezzo migliore per metterle in scena. Se Ray si schierava apertamente con i suoi eroi e ne condivideva le speranze e le battaglie, sfidando con il suo cinema la convenzione e recuperando, come ben notò Rivette, l’ingenuità di un cinema del passato, Huston, da consumato sceneggiatore, imbastisce il suo cinema a partire da quello precedente, che si è stratificato perfezionando sempre più la costruzione ingannevole delle vicende narrate, la pretestuosità dei suoi personaggi, il gioco talvolta doloroso e talvolta gioioso con il tempo e la rappresentazione del mondo.
Se Ray era convinto che attraverso la stilizzazione cinematografica si potesse giungere ad una verità (una verità non documentaria ma emotiva), Huston è evidentemente di parere opposto, e fin da Il mistero del falco costruisce un’opera basata sul nulla, sul pretesto più smaccato, mascherando da thriller disperato quella che è a tutti gli effetti una commedia, che si conclude crudelmente in nulla. Molti film di Huston sono fondati sull’illusorietà, sul tentativo di raggiungere qualcosa che si rivela falso o inesistente, impossibile da tenere. Dal falcone maltese al tesoro dell’Africa, dal regno tra le montagne del Kafiristan de L’uomo che volle farsi re alla lettera al Kremilino, le ricerche degli eroi hustoniani si rivelano tortuose e pretestuose, tensione inutile verso qualcosa di ben più iraggiungibile che un tesoro materiale o il bottino di una rapina, la salvezza degli elefanti o qualche chilo d’oro che finisce spazzato dal vento. È impossibile il riscatto per i protagonisti di Fat City, impossibile la riconciliazione per quelli di Sotto il vulcano, inutile la ricerca di Dio ne La saggezza nel sangue, dolorosa e irrisolta la possibilità di un cambiamento, in fondo non voluto, per il quartetto de Gli spostati, frustrato l’amore in L’anima e la carne e Di pari passo con l’amore e la morte. Le convenzioni soffocanti, siano esse le buffe scenette di mafia ne L’onore dei Prizzi o l’esercito unionista de La prova del fuoco, costringono i protagonisti alla menzogna, una strategia che Huston asseconda, in quanto autore di un cinema indefinibile, spesso marchiato come di mestiere solo perché costantemente al passo con i tempi. Dal 1941 al 1987, ogni frammento della sua opera è immediatamente riconoscibile e collocabile cronologicamente all’interno dell’evoluzione di cinquant’anni di cinema americano.
Il fatto di aderire con così grande facilità alle convenzioni, ai formati, ai generi, ai cambiamenti e alle mode del cinema a lui contemporaneo, senza rimanere ancorato a moduli personali rigidi e immediatamente distinguibili, può essere stato uno dei motivi per cui Huston non è stato riconosciuto come merita, ma questo mimetismo appare oggi uno degli aspetti più interessanti del suo cinema, che si rivela appunto pretestuoso anche nell’uso del mezzo, che diventa, nelle mani del regista, parte del gioco. Eppure, un regista come Huston ha la necessità di essere contemporaneo, e di affermare ad ogni nuova prassi acquisita e ad ogni nuova tecnica sperimentata la natura mendace del cinema. Accanto a questa sfuggevolezza vi è, di contrasto, l’adesione a fonti letterarie esplicite, quindi adattate, e implicite, come il più volte citato Hemingway, molto vicino alla poetica hustoniana dei primi film, ma in realtà sottotraccia a tutta la sua opera. Il grande numero di adattamenti letterari, di volta in volta più o meno illustri, sono una delle cause della diffidenza critica nei confronti di Huston, che avrebbe la colpa di non “fare suo” il testo di partenza ma di limitarsi ad illustrarlo in maniera più o meno ispirata. Il rispetto per molti dei testi adattati, che si intuisce portati sullo schermo per passione e talvolta falliti per il medesimo motivo (vedi Moby Dick) denota un’autorialità non esclusiva, bensì intrusiva e malleabile, che non avendo una rigida visione del mondo ne accoglie volentieri altre, non necessariamente in contraddizione ma nemmeno troppo simili le une con le altre. Del resto, questa mancanza di un centro, questa duttilità hustoniana si evince anche dalle vicende biografiche a margine della produzione dei suoi film, come l’aneddoto molto noto di un film contro la caccia agli elefanti (Le radici del cielo) girato per avere la possibilità di uccidere un elefante, cosa che peraltro Huston sceglierà alla fine di non fare. Simili a lui, i suoi personaggi partono spesso come disillusi, esperti di un mondo che finirà per ingannarli ancora una volta, sperdendoli all’intero dei suoi labirinti, costringendoli a fingere e a mentire.
In quasi tutti i film di Huston vi sono numerosi momenti in cui uno o più personaggi si esibiscono in favore di altri soggetti, o solo dello spettatore, che sa che mentono o potrebbero farlo. Si pensi al gioco delle parti dei primi thriller (Il mistero del falco, Agguato ai tropici, L’isola di corallo), al continuo spiarsi e ingannarsi de Il tesoro dell’Africa (da questo punto di vista uno dei film più esemplari dell’autore), il gioco di maschere (maschere vere) che poi diviene scoperto ne I cinque volti dell’assassino, che nella scena della caccia alla volpe porta all’estremo questa ricorrente moltiplicazione di prospettiva, con la battuta che diventa un complesso avvicendarsi di punti di vista interni e poi esterni, da parte dei manifestanti e dei contadini. Si pensi all’inganno perpetrato dai due commilitoni agli abitanti del Kafiristan ne L’uomo che volle farsi re, ai giochi di spie di Lettera al Kremlino e L’agente speciale Mackintosh, al regno del “giudice” Roy Bean in L’uomo dai sette capestri, e ancora a performance più esplicite, come quelle del Mouline Rouge del film omonimo o la partita di calcio di Fuga per la vittoria, fino all’approdo tardivo (e poco riuscito) al musical con Annie. Questo cinema della digressione e dell’accumulo, questa carriera densissima di titoli, di generi, di location apparentemente così lontani denuncia non solo un approccio anarchico e appassionato nel fare cinema, ma anche, a ben vedere, un riflesso della vita stessa dell’artista, vissuta con straordinaria intensità e lontana dalle convenzioni che i suoi film denunciano costantemente, spesso in negativo, attraverso le fughe (o i tentativi di fuga) dei suoi personaggi.
Questo ulteriore parallelo biografico consente di leggere il cinema di Huston nuovamente in opposizione a quello di Ray, che finiva per forzare le sbarre delle prassi cinematografiche hollywoodiane per esprimere ogni volta una sua personale visione del mondo e del cinema. In Huston, al contrario, l’accumulo e la varietà di finzioni servono a nascondere le uniche certezze possibili: quelle dell’impossibilità della felicità e della certezza della morte. Il cinema di Huston come grande esorcismo quindi, come grande ed ennesimo inganno nei confronti della crudeltà del mondo, gioco di carte con mazzo truccato e nonostante ciò impossibile da vincere. Non a caso infatti Huston adatta il Moby Dick dove, andando contro la sceneggiatura del cristiano Bradbury, si schiera evidentemente con Achab nella ribellione senza speranza verso un Dio crudele, e soprattutto conclude la sua carriera con un film come The Dead, da Joyce, e con una dolorosa, lancinante consapevolezza. Come la figlia Anjelica, i suoi eroi dormono ora, e ci immaginiamo il vecchio John alla finestra, di fronte alla neve che cade, a palesare il senso ultimo del suo cinema, ad interrogarsi sul senso mancante che regola le nostre esistenze, sull’inutilità della vita, e del cinema.