Azione, Horror

RESIDENT EVIL: AFTERLIFE

Titolo OriginaleResident Evil: Afterlife
NazioneGer/U.S.A./GB
Anno Produzione2010
Durata97'
Sceneggiatura
Fotografia
Montaggio
Scenografia
Musiche

TRAMA

Il mondo è in mano agli infetti mentre Alice e i suoi cloni si vogliono vendicare della Umbrella Corp. I cloni ci lasciano la pelle (tutti), Alice no e si mette alla ricerca di sopravvissuti.

RECENSIONI

Paul W.S. Anderson si riappropria della sua creatura e lo fa con una sfacciataggine davvero mirabile. Afterlife è un film senza ritegno, ludico fino al ridicolo ecchissenefrega. Viene riesumato tutto l’armamentario visivo wachowskiano ed elevato a una potenza parecchio alta (freeze frame di durata geologica, rotazioni da lussazione), si utilizza il 3D per tutto quello che ci si aspetta (pallottole che si piantano nelle poltroncine del cinema, mutanti che ti alitano in faccia), la storia, semplificando un po’, non esiste e i personaggi, a-dimensionali, dicono solo stronzate da paleocinematografia de-genere (“al liceo ero campionessa di nuoto”, cose così).

Chi scrive è piuttosto persuaso che una simile impostazione sia adeguata al contesto. La saga videoludica di RE è il regno del trash narrativo, del cliché eletto a Stella Polare e dello spavento a buon mercato, enucleando una visione dell’Horror infantile e reazionaria ma perfettamente funzionante, se si decide di stare al (video)gioco. Ed è per questo che diciamo svogliatamente “sì” a questa che ci sembra una svolta semi-demenziale del serial cinematografico. Che dunque non perde contatto con la fonte, anzi. Al di là del ritorno e riciclo dei personaggi chiave (Claire e Chris Redfield, Wesker, il postfinale con Jill Valentine) fanno bella mostra di sé aggiornamenti al bellissimo - ma quasi apocrifo agli occhi degli integralisti - IV capitolo (i Ganados dal volto scomponibile) e al V – rectius IV.2 in HD – (l’Executioner Majini col suo martellone/ascia autoparodico, l’amuleto meccanico che “controlla” l’ospite). Ma, più genericamente, sono le assonanze strutturali a farsi assordanti.

Smarrita la bussola drammaturgica, Afterlife procede di location in location con qualche filmato di intermezzo e rispetta molti canoni videogiocosi, tra i quali la struttura a End-of-level-Boss. Nella fattispecie, lo scontro col sol(itari)o Majini Boia, logicamente ingiustificabile (perché solo lui irrompe nell’edificio se “guidava” l’assedio?), non è altro che il classico scontro col miniboss che precede quello col Mostro Finale – Albert Wesker – che difatti arriverà da lì a breve (e sarà una nuova, letterale citazione da RE5). Da un certo punto di vista, per Paul W.S. Anderson si tratta di una nuova, decisa scelta di campo ancora più “estremista” di quella vista in Death Race, che si può accettare o rifiutare in blocco ma che rischia di divertire i bendisposti come il sottoscritto. Finale (fin troppo) aperto al sequel ma in un certo senso coraggioso (è un sabotaggio assoluto dell’apparente happy end), musiche di Tomandandy assai adeguate (ferme ai NIN 90’s), Milla Jovovich leggermente invecchiata ma perfettamente cristallizzata nel ruolo.

Il prologo d’azione è quasi insopportabile nel suo essere girato ad effetto, ostentando plongée, ralenti, movimenti di macchina e trucchi digitali: diciamo che Anderson voleva sperimentare le potenzialità del 3D (realizzato con le stesse cineprese di Avatar) e, anche per questo, è tornato a dirigere un capitolo della saga dopo nove anni. Quando, per fortuna, si rientra nella “normalità”, il suo talento si fa apprezzare in alcune idee dello storyboard (su tutte, il volo dal grattacielo di Alice appesa ad una corda, zombi al seguito: per organizzazione del montaggio, commento sonoro di tomandandy, punti di inquadratura e uso del ralenti, la scena è davvero immaginifica) e nelle valide invenzioni del suo script, che moltiplica le fonti di pericolo per una stessa situazione (alla prigione, ad esempio, dove gli umani sono attaccati dal sottosuolo, dai cancelli con Nemesis e dall’interno attraverso l’infingardo produttore). Il problema di tutta la saga, semmai, è che affastella in quantità banchetti dell’usato e molto raramente vende qualcosa di nuovo, soprattutto a livello di racconto (e non c’entra il rifarsi, come in questo caso, alla quinta uscita del videogioco). Questo capitolo, in particolare, è meno autonomo degli altri, diretta estensione del precedente diretto da Russell Mulcahy: parte “già iniziato” e finisce senza concludersi, in attesa di un sequel. Al quarto capitolo (senza contare il film d’animazione del 2008), era lecito aspettarsi un colpo d’ala in più, invece l’opera pare esistere solo per permettere ad Anderson di sperimentare voli tecnici pindarici e le pregevoli, quanto studiate e troppo privilegiate, coreografie d’azione.