Riflessioni

Resident evil

Resident Evil, ormai lo sanno anche i muri, è tratto da un videogioco divenuto saga. Quattro sono, per ora, gli episodi principali che la compongono: Resident Evil, RE2, RE3: Nemesis RE: Code Veronica con corollario di alcuni paraepisodi accessori e derivati(vi) come la serie Gun Survivor o il RE Gaiden per GameBoy. Del gioco, fin dalla sua nascita nel ’96, si è sempre messa in risalto la cinematograficità per via del sistema di inquadrature utilizzato: una serie di piani fissi con “cinepresa” immobile che sceglie posizione e angolazione del punto di vista; all’interno del piano il personaggio è libero di muoversi nelle tre dimensioni ma è come soffocato dalla fissità dell’ambientazione che vede i suoi confini (in)naturali nei 4 lati dello schermo e nell’”aldiqua/aldilà” del punto di vista stesso. Quando il personaggio eccede uno dei 6 confini, l’inquadratura cambia repentinamente e arbitrariamente, precipitando spesso il giocatore in una situazione pericolosa e claustrofobica (esempio classico: piano americano frontale del personaggio che ha appena aperto una porta – altro momento di classica suspense – e che si muove obbligatoriamente verso lo schermo, fino a un primissimo piano che diventa d’un tratto un filo a piombo su quella che scopriamo essere una piccola stanzina col personaggio assalito da due zombi famelici pronti ad addentarlo). Ma i debiti col cinema non finiscono qui.
C’è intanto una trama da classica (e ritrita) science fiction che vede una potente multinazionale, la Umbrella, alle prese con esperimenti di biogenetica destinati alla creazione di potenti e letali armi chimico/batteriologiche; poi un saccheggio massiccio e spudorato dell’iconologia zombica romeriana coi suoi cadaveri straccioni, deambulanti e affamati di carne umana; poi ancora delle sezioni di gioco dall’ambientazione Hi-Tech a base di cunicoli, condotti d’aria e strane creature che non possono non ricordare Alien(s) & Company; ancora, la saga di Resident Evil è la prima ad adottare, in ambito videoludico, la cinematograficissima pratica del remake: l’ultimo episodio uscito è quello sviluppato in esclusiva per il GameCube Nintendo ed è per l’appunto il remake del primo episodio uscito nel ’96 su Playstation, cosmeticamente aggiornato alle potenti console di nuova generazione e ricco di variazioni e aggiunte che lo rendono entertaining anche per chi conosceva e aveva già giocato l’originale;   infine, uno sviluppo della saga stessa che non solo ripropone la sequenzialità classica hollywoodiana ma che ne contamina un po’ la rigida scansione cronologica (alcuni seguiti non seguono ma affiancano temporalmente gli episodi precedenti, come Resident Evil 3) e ne riprende le tendenze più nuove e moderne: l’episodio di prossima uscita, di nuovo su GameCube, è Resident Evil 0, che non è un vero e proprio sequel ma nientepopodimenoche il prequel di tutta la sequela…
Date queste premesse affinità elettive gioco-cinema, l’incarnazione filmica degli azzardi biologici di Resident Evil (chiamato Biohazard nel natio Giappone) diventava una sorta di superfluo atto dovuto, insieme sbocco naturale e inutile epigono. Il regista Paul Anderson aveva già parlato di videogiochi nell’esordio Shopping, ne aveva trasposto uno col mediocre Mortal Kombat, se ne era momentaneamente allontanato col non disprezzabile fantahorror Punto di non ritorno per poi tornare a bomba con questo Resident Evil che forse conferma una sua sincera passione per il mondo dei joypad. In effetti il film lascia trasparire una certa competenza sull’argomento, non ostentata o invadente, ma capace di soddisfare le prevenute, critiche attese dell’appassionato… un po’ come se Anderson dicesse: – ragazzi, anch’io ho giocato a RE, so di cosa parlo e non vi sto prendendo per il culo, ma ho un film da fare e, capitemi, mi devo prendere un bel po’ di libertà, tanto sapete meglio di me che un conto è giocare un altro è andare al cinema -. Più o meno. Così le poche sequenze ambientate nella “famosa” villa di RE sono un adeguato rimando al gioco, con le inquietanti statue, i pavimenti a quadri bianchi e neri e le cigolanti porte in legno da aprire; i colori delle tre fialette spiraliformi, verde, blu e rosso, rimandano immediatamente alle tre piantine colorate da utilizzare nel gioco (verde-curativa, blu-antidoto, rossa-“potenziaeffetto” delle prime due se con esse combined); la scritta Biohazard, affiancata all’inconfondibile simbolo giallo/nero che compare più volte nel corso della pellicola, rimanda al già citato titolo originale giapponese del gioco sviluppato dalla CAPCOM; il modo di utilizzare e “incastonare” graficamente il logo della Umbrella Corp., specie nei titoli di testa, rimanda anch’esso ad analoghi utilizzi déjà-vu nei giochi; la riproduzione delle creature è accurata e puntuale, specie per quanto riguarda i cani e il temibile Licker; i rimandi espliciti ai vari episodi della saga sono gustosi, come quello nell’ultima parte del film quando lo scienziato ordina l’inserimento di un pover’uomo infetto in procinto di mutare nel progetto Nemesis – ergo il sottotitolo del gioco RE3 (nonché sottotitolo dell’imminente sequel del film) -. Questi e molti altri sono i competenti rimandi videoludici di un film girato onestamente, con buon senso del ritmo e con un ottimo lavoro sugli effetti sonori che amplifica e non vanifica l’efficacia di alcuni colpi di scena altrimenti telefonati, recitato nel complesso dignitosamente, sorretto da una sceneggiatura che si eleva un microgradino più in alto del suo prevedibile status di pretesto ma soprattutto emblematico, nel bene e nel male, del presente/futuro dei contatti tra Cinema e industria dell’intrattenimento elettronico…
Un tempo, girare un film tratto da videogiochi esteticamente e “contenutisticamente” afilmici come Super Mario Bros. era un’impresa facile e deleteria a un tempo, nella misura in cui i margini di libertà d’azione cinematografica concessi erano ampissimi come la distanza tra i due mondi di allora e i risultati, oltre che inguardabili, erano letteralmente inconfrontabilicon la fonte [i]. Ora, per converso, i due territori si sono sensibilmente avvicinati e insieme paradossalmente allontanati perché il videogioco, con l’approssimarsi asintotico al fotorealismo grafico assoluto (giocare a Resident Evil su GameCube per credere) e con le pur modeste complessità tramiche di cui tenta di dotarsi, assume sempre più i connotati di un mondo/media alternativo al (e/ma dipendente dal) cinema, arrogante e influente, capace com’è di generare planetari fenomeni di costume [ii], a corto di idee originali e dunque costretto a perpetrare un utilitaristico saccheggio dell’immaginario cinematografico, ma senza complessi di inferiorità. Con la spavalda sicurezza di chi è forte dei propri mezzi. Ecco dunque che trarre un film da quel tipo di videogioco diventa un’operazione rischiosa, un’arma a doppio taglio in odor di tautologia, un pericoloso, mediato “ritorno allo stesso”… si prende un gioco palesemente modellato sull’universo avventuroso di Indiana Jones, ossia Tomb Raider, e si gira un film che è, cinematograficamente parlando, la derivazione di una derivazione di Indiana Jones, con l’aggravante che la prima derivazione era già stata mediata, semplificata e banalizzata per adattarla a un contesto ludico dove l’elemento interattività richiede solo (inter)azione e sopperisce perfettamente all’annullamento di tutta la già precaria profondità e delle possibili sfumature/variazioni della fonte.
Si prende un gioco che si rifà alla trilogia dei morti di Romero e ai fantahorror Hi-Tech allaAliens, ossia Resident Evil, e si finisce per girare un onesto ma ibrido minestrone citazionista dove il gioco dei rimandi innesca un inarrestabile circolo vizioso: lo zombi pallido e claudicante di Resident Evil (il film) “cita” (è) quello di Resident Evil (il gioco) o quello di Romero? (e perché non quello di Fulci, allora?). L’ambientazione supertecnologica e claustrofobica dell’Alveare, l’inarrestabile furia del Licker (Alien?) mutante sono quelle di Shinji Mikami (ideatore della saga) o quelle di James Cameron? (e perché non quelle di un qualunque Stephen Sommers, allora?). I colpi di scena del tipo “fuggo da un mostro, mi rifugio in una stanza dove immediatamente mi assale un altro mostro” sono puntuali rimandi alla meccanica del gioco o pedisseque riproposizioni di topoi cinehorrorifici vecchi come il cucco e rispolverati da programmatori in debito d’inventiva? Si obietterà, forse a ragione, che comunque non è il caso di sprecare troppe parole per quella che è senz’altro inquadrabile come una interessante ma “banale” questione di soldi: da una parte il mondo dei videogiochi trova ossigeno vitale a buon mercato nel mutuare gratuitamente dal cinema gli spunti [iii] più sfruttabili dal pdv ludico, dall’altra il cinema si arraffa la sua dovuta contropartita realizzando la più o meno fedele versione in celluloide di giochi/best seller che garantiscono un bacino d’utenza di milioni di giovani e meno giovani [iv]. Gli affari sono affari e probabilmente solo affari, nel senso che è altamente improbabile che game designer/producer da un lato e registi/produttori dall’altro si facciano troppe domande sulla legittimità, sulle implicazioni e sul reale “valore” delle rispettive operazioni (domande che, comunque, possiamo benissimo farci noi al posto e alla faccia loro…). La questione si fa però più complicata allorché ci si prefigge di fare speculazioni un tantino più seri(os)e sull’argomento, incoraggiati magari da casi di contaminazione più emblematici, ambiziosi ed “estremi” come Final Fantasy: The Spirits Within eXistenZ
Conviene iniziare con un piccolo passo indietro: si fa un gran parlare, ed io mi sono reso (in)volontariamente complice, dell’avvicinamento/annullamento della distanza tra film e videogiochi; oltre a quanto detto fino ad ora è interessante notare come i due media, per la fruizione casalinga, utilizzino ormai non solo lo stesso supporto (il DVD), ma potenzialmente anche lo stesso Hardware, visto che le console di nuova generazione come la X-Box di Microsoft e la Playstation2 di Sony sono anchenormali lettori DVD [v];  che la scelta e visione dei finali alternativi e delle scene tagliate inserite nei film in DVD stessi sembrano sempre di più un’interazione videoludica; che molti film odierni somigliano a dei videogiochi (l’ingiurioso epiteto “estetica videogame” riempie da tempo la bocca di critici e non); che ormai alcuni film hanno cercato di annullare, di fatto, la distanza tra video & game… ma in che modo? Al di là dei casi più semplici(stici), ossia i film direttamente e lucrosamente ispirati ai giochi (Mortal Kombat, Street Fighter, Tomb Raider ecc.), come già detto mai presi troppo sul serio da chi si prefigge riflessioni degne di questo nome, sono quasi sempre due i casi citati come invece “teoricamente” (in tutte le accezioni del termine) significativi – 1) il soporifero Final Fantasy di Sakaguchi (ideatore del gioco omonimo), salutato come un futuribile “passo in avanti” (verso dove non si sa [vi]) ma in realtà bruttissimo, tradizionalissimo film di fantascienza interamente girato in Computer Grafica: basta questo a contaminare i due mondi? No di certo, visto che la CG fa parte, sì, del patrimonio estetico e SOLO estetico dei videogiochi, ma oltretutto del loro marginale lato NON interattivo, perché chi gioca sa che in CG sono realizzate introduzioni, finali e filmati di intermezzo dei giochi stessi, tutte noiose sezioni “guardabili” ma NON giocabili; 2) il cronenberghiano eXistenZ [vii], film-gioco non giocabile che chiama in causa, per destabilizzarla, la percezione spettatoriale della realtà stratificando ad libitum (e in loop) i vari livelli “virtuali”… sì… ma anche questo che c’azzecca coi videogiochi? Definitivamente tramontata la prospettiva ludica della realtà virtuale [viii], ormai ridotta allo statuto di cazzata per turisti, l’odierna industria dei videogiochi può contare su fatturati altissimi, tecnologie avanzatissime e pochissime idee con le quali continua però a divertire e ad arricchirsi. “Videogiocare”, oggi, significa ancora inserire un CD o DVD o MiniDVD in un aggeggio di plastica, impugnare un joypad/mouse e muovere un omino e/o macchinina e/o astronavina su un monitor o su un televisore.
Nessuna confusione tra reale e irreale, nessun pericolo di contaminazione, nessun cortocircuito percettivo in agguato [ix]… muovere un omino e/o macchinina e/o astronavina sullo schermo… MUOVERE. Nessun contatto, se non superficialissimo e prettamente cosmetico-estetico, col cinema , in cui però si GUARDA senza nulla MUOVERE, nessuna “profondità di gioco” tale da rendere l’esperienza ludica davvero nuova, piena e assoluta. Nessuna etica, nessuna filosofia. Casi buoni per un servizio di “Costume e Società” come le tette antigravitazionali di Lara Croft o Resident Evil lo dimostrano, “avvenimenti” presi troppo sul serio come il filmetto di Sakaguchi o il “solito” Cronenberg lo confermano senza eccezioni alla regola: i videogiochi o scimmiottano il cinema o tentano di evolversi a livello “esperienziale” con risultati risibili (vedi note ix e x), mentre il cinema o scimmiotta i videogiochi che scimmiottano il cinema o prende lucciole per lanterne, filosofeggiando senza un perché dato che travisa i presupposti stessi del filosofeggiamento. Questo il (superficiale?) parere di chi scrive, ma il dibattito, per chi vuole, è ovviamente aperto…

[i] Mario era uno sprite bidimensionale immerso in un universo “altro”, sempre in stilizzato 2D, popolato di tartarughe e creaturine indefinibili, ed era impegnato a salvare la principessa Peach dal malvagio Koopa (sorta di