TRAMA
Provincia del Connecticut. Incidente sulla Reservation Road: un uomo investe un bambino, un padre perde suo figlio.
RECENSIONI
Le lacrime sono tutte uguali
Lo sguardo Usa torna a inumidirsi per scrutare la sensazione del dolore. Vedere morire la propria prole, accogliere in sé il lutto, lasciarsi lacerare da un lato; osservare un segreto quotidiano, restare impassibili, combattere il diavolo della coscienza dall’altro. Di fondo il dilagare rampicante della Tragedia: questa sottrae il conforto strumentale del colpevole perché non ne offre nessuno, ma soltanto automatismi feroci che spremono lacrime e spolpano vite. Terry George gira un film di padri, imperniato su dolorose corrispondenze: il professore Ethan e l’avvocato Dwight, due facce della stessa medaglia nera, che lo script intreccia a vicenda formando un nodo alle budella. Dal libro di Schwartz, la linea della trasposizione è senza dubbio l’attorcigliamento drammatico; ne deriva il moto disordinato dei personaggi che si lisciano, sfiorano e toccano, pedine ignare sul tabellone delle coincidenze, e infine si scansano. I corpi lasciano emergere un oggetto: l’arma da fuoco, netta sineddoche della violenza, un simbolo e le sue derive tra conati di vendetta e macchie di colpa. E’ interessante Reservation Road nelle questioni che tocca: un’opera sui pirati della strada? il crollo della tana domestica? la reazione alla scomparsa? lo spettro del reato? Tutto insieme, attentamente connesso, ma zavorrato da una tara decisiva: la continua incapacità di farsi film, tradurre questi ritagli in narrazione figurativa autonoma e compiuta. L’attività sostanziale è sempre vorticosa, ma di base schematica e zoppa, priva dello slancio che rende imprevisto il prossimo passo: come a livello tramico, così su base stilistica. Due sequenze gemelle a sottolineare l’invariabilità della lacrima: il nido di Ethan e Grace allo sfascio, i coniugi rimbalzano responsabilità implicite e gli attori si strillano addosso sguaiati; la resa di Dwight, lo scioglimento emotivo e l’umida introiezione del proprio misfatto. Nessun tracciato libero ma tappe obbligate: poste certe premesse, il ciclo del dramma deve inevitabilmente, quasi aritmeticamente, concludersi in determinati modi. Afflitto a lampi da clima grave, fotografia plumbea, prove nervose, il lavoro rovina dunque sulla debole costruzione estetica, non definisce i caratteri bensì li sovraccarica: ogni cosa è esplicitata, a danno delle sfumature, in preda alla sofferenza, assordata da urla disperate. Film e regista vanno affondo in una catena di prolungate, moleste scene madri.
Un tema simile a quello di 3 Giorni per la Verità, una riflessione tormentata sulla vendetta privata come in Il Buio nell'Anima, un epilogo che ricorda quello del coevo Caccia Spietata: Hollywood sta affrontando un processo di maturazione, sul concetto di “colpa”, che rifugge dal manicheismo. E non c’è autore migliore di Terry George per rendere complessa la morale e non finire dalle parti dei grossolani Film-Tv con dibattito a seguire: il suo cinema, sempre civilmente impegnato, sempre emotivamente potente, dipinge tragedie per elaborare il lutto, previa riflessione, anche filosofica ed esistenziale, sul concetto di Destino, Coincidenza, Responsabilità e Male. Gli incidenti accadono, le vittime sono su entrambi i fronti: l’offeso passa dalla parte del torto nel momento in cui è preda di un’ossessione che non tiene conto della sofferenza altrui, della prigione in cui il “colpevole” è già finito. Quest’ultimo ha, d’istinto, barattato la vita di suo figlio (per continuare a vederlo) con quella di un altro, salvo realizzare, in seguito, che essere di buon esempio per la prole è atto morale imprescindibile. Fra eventi paradossali (il padre del bambino investito ingaggia come avvocato proprio il pirata della strada) e sguardi verso l’alto (c’è anche il tema di una nazione rammollita, incapace di affrontare il dolore come altri paesi meno cullati nel benessere), George rende interessante un’opera a rischio di platealità e qualunquismo.