TRAMA
Yorkshire, 1983. Una bimba scompare all’uscita di scuola. Il caso ricorda chiaramente gli omicidi del 1974, per i quali è stato condannato un uomo infermo di mente. L’avvocato John Piggott si convince dell’innocenza del suo cliente. Il commissario Maurice Jobson, che ha firmato l’incriminazione, è assalito dai dubbi. Piggott ritiene che la confessione sia stata estorta dalle autorità e comincia a indagare da solo, anche Jobson segue una nuova pista. I due sono vicini all’identità del vero Squartatore.
RECENSIONI
Anand Tucker, autore dell’ultimo episodio, scrive il senso della trilogia Red Riding. 1983 ci conferma alcuni dati come tratti distintivi dell’operazione, vedi le situazioni sentimentali che si sviluppano sempre, inevitabilmente durante l’indagine: approccio che vuole suggerire un parallelismo ideale tra morte e sentimento (diversi personaggi, stessi scenari), sulla scia di un mistero che impedisce di amare, finché non sarà sciolto non consentirà la realizzazione di coloro che lo indagano. Raccontando la fine della storia, il regista di Shopgirl è quello che osa di più: in molte fasi spezza l’andamento narrativo lineare e apre parentesi rarefatte, riempiendole con squarci figurati, preferendo l’evocazione alla narrazione: basti citare l’immaginaria “riapparizione” della bambina, immortalata con finte ali di cigno, a riproporre il dualismo basico candore/perversione, o tutto il memorabile stralcio finale nello scantinato. La doppia caccia conclusiva, condotta dal commissario Jobson (David Morrisey) e dall’avvocato Piggott (Mark Addy), svela anche l’obiettivo narrativo che i tre film perseguono: utilizzare le principali figure della detective story, ovvero gli archetipi del giornalista (1974), il detective (1980), il poliziotto e l’avvocato (1983), applicandoli tutti al medesimo caso. In questo senso la trilogia diventa anche un ripensamento dei codici di genere: un’inchiesta che continua per tre film, due dei quali non offrono la conclusione, ma la sua posticipazione e la momentanea vittoria dell’assassino (che dunque “vince” in due casi su tre). Oltre l’aspetto filologico e i riferimenti che sorgono spontanei (tra questi c’è Zodiac di Fincher), però, la Red Riding Trilogy resta soprattutto un ampio spaccato sociale, lo ribadisce il finale: sempre nel rispetto visivo dell’epoca considerata (i film seguono i dettati figurativi degli anni in cui si collocano), la vicenda sfocia in una conclusione nerissima come metafora della perdita dell’innocenza collettiva. Poliziotti corrotti, metodi violenti, politici deviati, cittadini/vittime pronti al sacrificio, soldi e perversione: i film di Jarrold/Marsh/Tucker sono un attacco in tre tempi alle deviazioni del potere britannico negli anni ’70 e ’80, che vede il serial killer come sfogo esterno di una malattia interiore e contagiosa. Malgrado tutto, all’ultimo affiora l’elemento identitario: “Siamo figli dello Yorkshire”, chiosa uno dei personaggi, nel bene e nel male evocando il mastice del territorio, riaffermando l’idea di comunità, esprimendo implicitamente la speranza di un domani migliore.