Etnografico, Recensione

RECENT ANTHROPOLOGIES

Titolo OriginaleRecent Anthropologies
NazioneUSA
Anno Produzione2010
Durata75'
Sceneggiatura
Fotografia
Montaggio

TRAMA

Nove casi di antropologia visiva al tempo della sua decomposizione psichedelica: dal meltin’ pot secondo Richard Pryor a una ragazza strafatta di acido e in balìa del deserto, in un susseguirsi di concerti punk, cantieri sauditi, farse in costume, insegne al neon ed esplorazioni intraterrestri.

RECENSIONI

Recent Anthropologies, l'incandescente patchwork di cortometraggi realizzati da Ben Russell tra il 2000 e il 2009, è un florilegio di cronache etnografiche del nostro tempo, cartografie lisergiche tra l'esotico e il mi(s)tico, poemi visivi dal flicker accecante e anomali détournement del cinema delle origini. Tra questi, spiccano alcuni esemplari della serie dei Trypps, ciclo di ricerche filmiche sulla psichedelia stimolata naturalmente, dove la forma del trip è da intendersi insieme come mezzo e fine dell'esperienza visiva. Il trypp posto in apertura, Black and White Trypps Number Three (10) offre un incipit d'inaudita forza espressiva, in grado di trasfigurare il pogo ferino di un concerto dei Lightning Bolt in un rituale estetico ed estatico di sconvolgente potenza immersiva. Attraverso l'iris disegnato dalla debole illuminazione, si stagliano i volti e i corpi sudati del pubblico in disordinata peristalsi, e quando il noise rock del duo digrada nel drone di Joe Grimm (più noto con l'alias The Wind-Up Bird), un sontuoso ralenti giunge, tra gli orgasmi grotteschi e i fantasmi improvvisi, a dilatare la danza in gorgo cosmico, con i furiosi scatti degli astanti a defluire in balletto bradipeo e silenzioso, risucchiati dal maelstrom del tempo, della trance, del cinema. Insieme palpitante documento di una scena musicale [§] e studio coreografico su un moderno voodoo, è questo il momento più alto di un ensemble eterogeneo e discontinuo: sorta di Les maitres fous noise, l'affresco inaugurale di Russell sa rievocare, in 720 secondi di pura grazia, la liturgia dei corpi del primo Garrel, le danze impossibili di Maya Deren e la sacra imponenza di certa pittura (qualcuno ha fatto i nomi di El Greco, Caravaggio, Tiziano).

Black and White Trypps Number Four (8)è invece l'episodio più ironico e autocritico del ciclo, un'operazione di violenta chirurgia celluloidale dove si riutilizza uno stralcio di pellicola 35mm (derivato da uno spettacolo comico di Richard Pryor) per smembrarla in un 'assalto Rorschach' (Russell dixit) sul tema del confronto razziale. Ne esce un flicker film più travolgente della media d'ingessati strutturali, dove la rasoiata visiva, decisamente più sanguigna degli algebrici sfarfallamenti di Frampton e Gehr (e vicina, semmai, alle furiose intermittenze dell'Arnulf Rainer kubelkiano), ironizza sul proprio stesso titolo frastagliando bianco e nero al suono delle colorite battute razziali di Pryor. E se Trypps #5 (Dubai)(7.5) è un conciso film-totem sulla pulsante 'felicità' al neon importata dal capitalismo globale, Workers leaving the factory (Dubai)(9) ri-situa L'uscita dalle officine Lumière, di cui è dichiarato remake, nella capitale dell'inferno neofordista; permangono, a distanza di oltre un secolo, il silenzio del cinema muto e l'inquadratura fissa, frontale e monopuntuale, ma a differenza dell'ipotesto originario quest'ultima sortie, bruciata da una luce implacabile e immersa in uno scenario post-umano, mostra un esercito di lavoratori di cui non sono visibili i padroni, lasciando parlare, al posto della carrozza dei Lumière, le colossali facciate dei grattacieli retrostanti. In questo cortometraggio, Russell, autodefinitosi antropologo del cinema delle origini, esplicita con chiarezza il progetto utopico a cui mira: tornare a pensare il presente attraverso lo sguardo del cinema primitivo, non limitandosi a resettare la storia della settima arte come un postmoderno capriccioso, ma costringendola ad un confronto profondo e urticante con la viva realtà.

Sul legame tra cinema primitivo e colonialismo riflette invece il muto Daume (7), stramba pantomima slapstick girata in Sudamerica e scandita da capitoli scritti in lingua sconosciuta e non tradotta. In questo ludico esempio di etnografia critica, idealmente vicino al lungo Let each one go where he may, una stessa azione viene ripetuta da indigeni mascherati, con l'innaturalità delle pose e la falsità della messinscena a ridicolizzare la masquerade dell'etnografia tradizionale; il breve film-saggio, anticato nella grana della pellicola (super8 gonfiato in 16mm), si serve di gag da cinema muto per esibire la rete di finzioni stabilite tra il documentarista e il suo soggetto, tra colonizzatore e colonizzato. The Red and the Blue Gods (7.5) è un'altra surreale e atipica farsa in costume sul senso dell'antropologia contemporanea. A Torino, Russell, in una curiosa mise en abyme tra testo e realtà, è intervenuto durante la proiezione con una bizzarra performance: abbigliato in maschera e costume da bagno, esattamente come il suo doppio nel film, dove si narrava la costruzione di un fantarcheologico grattasole, il cineasta, messosi lodevolmente in gioco, ha accompagnato la visione con la microfonazione del suo respiro e un commento (al commento) mandato incessantemente in loop.

Restano poi le due cartografie impossibili realizzate tramite foro stenopeico: il plumbeo Last Days (7.5), elegia terminale del mondo alla fine del mondo, e il magnetico Terra Incognita (8.5), collage di memorie offuscate e ancestrali dell'Isola di Pasqua, percorsa con sguardo alieno e descritta con le parole degli esploratori che per primi vi giunsero. Mentre una voce computerizzata cuce le citazioni letterarie in un'unica, incantevole narrazione, scorrono i frammenti annebbiati di un altro mondo, cartoline atemporali di paesaggi irrimediabilmente lontani, appannati dalla foschia stenopeica; sembra quasi un'ipotesi di percezione neonatale, appunti visivi di una coscienza alterata dal tempo e dalla Storia, impressionismi segnati dalla nostalgia per luoghi (mai) visti. Chiude Trypps # 7 (Badlands) (9), poema imbevuto di Lsd su una ragazza inghiottita da uno specchio nel parco desertico di Badlands. Dapprima si ritrae la giovane donna con un insistito e sospetto primo piano - le punte dei suoi capelli si arricciano e volteggiano tra più correnti, senza più direzioni possibili, quasi un'assurda esternazione del suo trip di acido. Da lì Russell, forse memore de La région centrale di Snow, orchestra una potente ascensione spirituale saldando con disinvoltura la meraviglia dello scenario naturale all'ipnosi artificialmente indotta dalle (false) acrobazie di specchio e macchina da presa. La dissoluzione mélièsiana della donna, ultima attrazione possibile, conclude fedelmente l'anacronistica serie di fenomenologie del rituale messe in scena dall'americano. Con la pretesa di raccontare il mondo come pura esperienza e non (più) come sterile rappresentazione, i suoi film etno-allucinatori, ideali trait d'union tra Rouch e Brakhage, riecheggiano il cinema di Cameron Jamie e di Harry Smith, esplorano un presente divenuto arcaico, sfondano i sensi per invitare alla trascendenza e incoraggiano modalità di visione inedite e/o dimenticate. Se ancora non fosse chiaro: il cinema di Russell merita il buio abbagliante della sala, e non le luci funebri della precoce musealizzazione.

[§] Siamo a Providence (Rhode Island), tra le capitali mondiali del noise, stretta tra le assordanti bordate di casa Load (una delle label americane decisive nel panorama avant-rock dell'ultimo quindicennio - si pensi, tra gli altri, a Sightings, Six Finger Satellite, Prurient e Khanate), e quella vulcanica factory a nome Fort Thunder, formicaio d'arte underground ricavato da una fabbrica abbandonata. Al fertile circuito locale contribuiva egregiamente lo stesso Russell, con i programmi di film e video sperimentali da lui curati per il Magic Lantern, sorta di Anthology Film Archives autoctono e a bassa fedeltà.