Horror, Recensione

[REC]

TRAMA

Angela è la giovane e ambiziosa reporter di una tv locale. Insieme al suo cameraman si affianca a una squadra di Vigili del Fuoco per riprendere da vicino la vita di questi professionisti, il loro lavoro, le lunghe attese e le situazioni di estremo pericolo che possono incontrare. Il loro primo intervento è una chiamata di soccorso di un’anziana signora rimasta intrappolata in casa. Quella che sembra routine, finirà per trasformarsi in un vero e proprio inferno.

RECENSIONI

Paco Plaza e Jaume Balaguerò. Il primo autore tra gli altri del fiacco Second Name, il secondo nome di punta della rinascita del genere horror spagnolo con l'interessante debutto di Nameless e i rumorosi, ma poco convincenti, Darkness e Fragile. L'accoppiata non promette scintille, invece REC si rivela un'opera riuscita e, cosa molto importante dato il genere, assai paurosa. Lo spunto, che rischia di pesare fin da subito come un macigno, è una trasmissione televisiva che si propone di mostrare dall'interno attività lavorative quotidiane. Quello che si teme, e che all'inizio scoraggia, è l'utilizzo costante della macchina da presa a spalla, con sobbalzi, intermittenze e sgranature che fanno tanto verità ed emicrania. I protagonisti, decisi ad approfondire il mondo dei Vigili del Fuoco, sono una giovane reporter molto agguerrita e l’addetto alle riprese, che, pur non vedendosi mai, grazie al suo occhio elettronico permette allo spettatore di essere costantemente all’interno dell'azione. La regia adotta infatti il suo punto di vista e ciò che viene mostrato è ciò che viene registrato per il programma. Quella che sembra una notte come tante diventerà un vero e proprio incubo. Una chiamata di routine, per liberare una donna anziana, accende infatti una concatenazione di eventi davvero inaspettati e terribili. Rivelare di più sarebbe togliere sorpresa, e quindi possibilità di partecipazione, al pubblico. Il maggior talento dei due registi è nella non comune capacità di organizzare l'azione in modo che risulti realistica e scorrevole. Grazie alla presenza del cameramen i fatti sono mostrati mentre avvengono e alcuni stratagemmi, come rapidi rewind, improvvise interruzioni, traballamenti, apnee, interferenze, non cadono nel vezzo d'autore, ma rispecchiano la contingenza della situazione e comunicano il disagio di chi la sta vivendo. Ci si dimentica quindi di assistere a un film e si entra nell'ingranaggio predisposto con acume dai due registi, abili anche nell'assestare al momento opportuno alcuni colpi ad effetto. A rendere il gioco fluido contribuisce anche una sceneggiatura davvero efficace che aggiunge elementi con furba progressione, caratterizza in modo rapido ma incisivo i numerosi personaggi (a partire dalla reporter e dal cameramen, credibili nell’ostinazione con cui perseverano nel documentare il massacro di cui sono protagonisti, possibile sbocco per un grande scoop), e riesce a spiegare gli eventi e a far quadrare il cerchio senza dare l'idea di farlo. Si arriva alla fine stremati e senza fiato, ma, per una volta, è esattamente ciò che si voleva.

Horror metadiscorsivo, tutto girato in soggettiva (è l’occhio meccanico dell’operatore il tramite visivo), puro esercizio di terrore e di (non) stile, Rec gioca le sue carte sfruttando fino all’estremo l’idea di partenza, buona per un corto, troppo esile per un lungometraggio: realizzare un (falso) documentario dell’orrore, una sorta di “docuhorror” dal montaggio assente (blocchi di riprese che suggeriscono una continuità che solo l’istinto di sopravvivenza viene ad interrompere di tanto in tanto), tutto giocato più sull’effetto sorpresa che sulla suspence: sposando il solo punto di vista di un personaggio che resterà sempre fuori campo (e che di fatto coincide, ça va sans dire, con il regista stesso) ed essendo il materiale filmato “grezzo”, a livello di sapere diegetico possediamo sempre le stesse informazioni del soggetto che “registra il proprio sguardo”, dunque sobbalziamo con lui, fuggiamo con lui, abbiamo paura con lui, ma, grande limite di un’operazione del genere, (non possiamo) sobbalzare, fuggire, aver paura per lui. Come riflessione sui “limiti” della visione e sull’etica dell’immagine non vale molto o nulla aggiunge di nuovo. Come film di genere può risultare piacevole, a patto di accettare due incongruenze di fondo sintetizzabili in due domande: perché l’operatore dovrebbe continuare ad impugnare la macchina da presa per “documentare la minaccia” e non impegnarsi a salvare gli altri o almeno se stesso? Perché il suo occhio dovrebbe fissare il volto pietrificato dalla paura della conduttrice traumatizzata dalla visione di qualcosa di terribile fuori campo e non rivolgere lo sguardo nella stessa direzione, in quanto essere umano inserito nel gioco? E’ il cinema a “disumanizzare” chi lo fa, oltre a “vampirizzare” il reale? Semplice deformazione professionale?