TRAMA
Una giovane dama di compagnia conosce casualmente a Montecarlo un affascinante e facoltoso vedovo. Inaspettatamente, l’uomo la chiede in sposa e la conduce a Manderlay, dove ancora aleggia la presenza dell’indimenticabile prima moglie.
RECENSIONI
Rebecca, la prima moglie, è, allo stesso tempo, un affascinante romanzo di Daphne du Maurier ed un bellissimo film di Alfred Hitchcock. Resistenti alla prova del tempo, sottilmente gotici ed ambigui, il maggiore successo della scrittrice inglese, il primo trionfo del regista, baciato da un Oscar che resterà senza compagnia (benché solo alla pellicola, non alla regia).
Il bel soggetto è stato ripreso in altre trasposizioni per la televisione, dalle più classiche in stile british a quelle indiane, passando per una italiana del 2008 con Mariangela Melato ed Alessio Boni, a testimoniare l’efficacia del mix tra amore, mistero ed umane debolezze.
Il 2020 ha portato la rilettura Netflix della storia e se sul portale non avessimo visto quasi di tutto - tutto ed il contrario di tutto per genere e valore - potremmo affrettarci a dire che era prevedibile trovare una versione tanto grossolana.
In teoria gli ingredienti indispensabili ci sarebbero quasi tutti: l’inizio in prima persona, con la voce della protagonista, il senso del destino, l’anticipazione di un fato oscuro, la centralità di Manderley, dimora imponente e spaventosa (come sarebbe dovuto essere anche il suo padrone, de Winter), l’impreparazione alla vita della giovane sposa, il grande macigno che aleggia sulla felicità dei coniugi. Però, come risulta chiaro fin da subito, manca la giusta atmosfera, il tocco è rozzo.
La ricca signora che porta la giovane a Montecarlo è una donna volgare, ma questa volgarità si estende impropriamente a situazioni e personaggi. Il pretesto della mancia, il profumo dozzinale, rappresentano un involgarimento gratuito. La ragazza viene derisa dalla signora e dalle sue amiche, trattata male dal personale dell'albergo, con l'obiettivo di farne una impacciata Cenerentola da salvare, ma la mano di regia e sceneggiatura è troppo pesante. De Winter viene introdotto come lo scapolo da accalappiare, la ragazza dice esplicitamente quanto guadagna, l'uomo la invita a colazione per noia e non lo nasconde. E poi la coppia nuda sullo yacht, l'improbabile intimità prima di alcun legame formale, il bacio in pubblico. Tutto viene spoetizzato per ragioni poco comprensibili (ricerca, maldestra, di una maggiore modernità?). Ai romantici restano inquadrature complici, espressioni come “ricordi da imbottigliare”, scambio di bigliettini: una esteriorità patinata incapace di toccare. Qualcosa si toglie (la sorpresa alla padrona), qualcosa si mette (l'incubo, il sonnambulismo, la lezione di equitazione), senza riuscire a dare un’identità riconoscibile allo sguardo. La parte centrale del film torna più fedele al romanzo, anche nelle atmosfere, ma è già troppo tardi.
Il personaggio di Maxim de Winter, privato dei passaggi che lo approfondivano, risulta opaco, senza nerbo. Armie Hammer sconta questi limiti e fornisce un'interpretazione che sfigura sia nella sua filmografia personale, sia nella piccola galleria dei de Winter che lo hanno preceduto, quasi sempre più vicini al fascino oscuro, segnato da inconfessabile sofferenza, della figura creata dalla du Maurier. Certo, la prospettiva è sempre stata e deve essere quella della giovane sposa innamorata ed ingenua, incapace di difendersi. Nella parte conclusiva l'eroina diviene protagonista di una sequenza d'azione che, in ossequio ai tempi che cambiano, la mostra mutata, motore e forza della coppia (il mutamento di lui, invece, non è pervenuto). Si chiude, senza spasimi, con un finale abbastanza gratuito – sarebbe stato di maggiore impatto e coerenza se la governante si fosse lasciata avvolgere dalle fiamme insieme alla casa dalla quale la sua signora non doveva essere espulsa.
Rebecca è un articolato percorso psicologico, la storia di un grande inganno ed un grande segreto. Interseca complesso di inferiorità, disperato desiderio di cancellare e superare il passato, amore salvifico (per entrambi i protagonisti), amore morboso (quello della governante, che altra vita non ha al di fuori di esso), amore simulato (da Rebecca prima, da Maxim poi). Tutto questo materiale richiedeva una cauta gestione e la capacità di evitare la superficialità.
Senza arrivare a paragoni impossibili, è evidente che se si sceglie un approccio più moderno, bisogna poi essere coerenti, cosa che qui non accade, con palesi stonature ed incongruenze. Più grave ancora è la piattezza generale, della regia, dei dialoghi, delle interpretazioni, tutto a sprecare un grande classico dall’intreccio sempre avvincente. In un gruppo di protagonisti non convincenti si segnala, almeno, Kristen Scott Thomas, una signora Danvers fatalmente perfetta.