TRAMA
Italia, oggi. Alcuni anziani cacciatori ricordano la storia locale di Luciano, un girovago alcolizzato che a fine Ottocento viveva in un villaggio della regione Tuscia. Fiero oppositore del principe della regione, l’uomo è noto fra i compaesani per il suo spirito libertario e anarchico e i gesti di rivolta contro l’autorità. Innamorato di una ragazza del posto, preso di mira dalle guardie del principe, Luciano compie un orribile misfatto e viene esiliato nella Terra del Fuoco. Qui, sotto le sembianze di un religioso, con l’aiuto di spietati cercatori d’oro, si mette alla ricerca di un mitico tesoro, aprendosi una strada verso la redenzione. In quelle terre desolate, però, prevalgono solo l’avidità e la pazzia.
RECENSIONI
Noi non cesseremo l’esplorazione e la fine di tutto il nostro esplorare sarà giungere là onde partimmo e conoscere il luogo per la prima volta.»
(T.S. Eliot, Quattro Quartetti, trad. A. Tonelli, Collana Zoom Poesia, Feltrinelli, 2016)
Certo, c’è Bruce Chatwin e la trasposizione filmica di Herzog, con quel Cobra verde che, per ragioni posturali, Re Granchio evoca fin dalla prima immagine. Sembra curioso perché siamo addirittura prima della storia vera e propria – è un caleidoscopio di voci, questo lavoro –, una storia in ogni caso molto diversa da quella dello schiavista, Francisco Manoel da Silva. Eppure la postura del giovane, ripiegato sulla schiena, nel raggelante finale del film del regista tedesco, tratto da The Viceroy of Ouidah, ricorda, in modo parossistico, la curva dorsale accentuata di Luciano (Gabriele Silli, polimorfo artista romano, interprete azzeccatissimo). Lo scrittore britannico è richiamato anche dall’ambientazione della seconda parte, parlata prevalentemente in spagnolo, del film di Alessio Rigo De Righi e Matteo Zoppis: la Tierra del Fuego, punta estrema (in culo al mondo, ci avverte la didascalia del capitolo secondo del Re Granchio!) di quella Patagonia a cui Chatwin aveva dedicato il suo capolavoro eretico: «Stamattina non sono di nessuna religione. Il mio Dio è il Dio dei Viandanti. Se si cammina con abbastanza energia, probabilmente non si ha bisogno di nessun altro Dio» (In Patagonia, trad. M. Marchesi, Adelphi, 2011). E l’eresia di Luciano, bevitore indefesso per troppa sete di vita, come di Aguirre, sempre per stare su Herzog, sorta di nume tutelare di questo riuscito lungometraggio, è un’altra delle moltissime suggestioni di una storia che è una storia nella storia nella storia, perlomeno. «Sono il furore di Dio e Dio è con me» ammoniva il folle Lope de Aguirre sul finale, anche in quel caso acquatico, di Aguirre, furore di Dio.
«Dove devo andare?», si grida invece qui, rivolti al cielo, in uno smarrimento esistenziale, evidenziato in modo perfetto grazie alle scelte spaziali, con riprese in campo lungo o lunghissimo, nello stile del tableau vivant, che caratterizza l’intero lavoro e che alla mente richiama pure il più bel film, per chi scrive, di Nicolas Winding Refn, Valhalla Rising – Regno di sangue. In un certo senso anche la questione dell’alterità – indiscreta o meno che sia – accomuna Aguirre con Re Granchio: dove, per il primo, le frecce degli indios rappresentavano la fine del delirio da conquistador, per il secondo, lo stesso elemento è foriero di una nuova possibilità/identità. Il trait d’union è appunto un elemento simbolico-eretico: Luciano beve con sprezzo il vino-sangue di Cristo, durante una celebrazione religiosa. In seguito prenderà il nome del missionario salesiano – un altro povero Cristo – Don Antonio, trafitto dagli uomini di una popolazioni indigena… a Bahia Aguirre. I registi sanno giocare con lo spazio – pittorico – della messa in scena. Alternano colori ocra-verdi, debitori del naturalismo fiammingo ed esasperati talvolta negli aranci caravaggeschi, con l’agorafobia bluastra delle distese ghiacciate o delle rocce della Terra del fuoco, come pure delle campagne del primo capitolo, intitolato Il fattaccio di Sant’Orsio. In un momento, in particolare, sembra invece di vedere in Luciano una sorta di commistione tra John Keats e Fanny Brawne: perso tra i sogni nel campo di lavanda, come fosse un personaggio uscito dai fotogrammi di Bright Star. Nondimeno i due autori riescono a creare una sospensione temporale, che ci disorienta quanto basta, tenendo fede alla natura leggendaria del racconto: «de Luciano se dicevan un sacco de cose: Luciano era un pazzo, Luciano era un nobile, Luciano era un santo, Luciano era ‘n mbriacone» e dopo «La gente racconta quello che sa. Solamente, se racconta dieci parole, dopo vie’ tramandato a quindici parole, a cinquanta parole. Alla fine, c’è un po’ inventato e un po’ vero.»
Un po’ inventata e un po’ vera, la storia di un emigrato per fame magari è divenuta l’impresa di un anarchico fuggiasco in cerca del tesoro, novello Long John Silver (e a proposito, l’introiezione letterale della mappa del tesoro ricorda l’espediente usato nella splendida serie, Black Sails). Una storia che è ambientata nella Tuscia alla fine dell’Ottocento o nei primissimi anni del Novecento; nonostante questo, un uomo del popolo, forse un pastore, conosce a memoria la più celebre aria della Tosca, la cui prima rappresentazione è datata 14 gennaio 1900. Sbaglia soltanto, se l’udito non mi ha ingannata, un piccolissimo, ma significativo, passaggio: «l'ora è fuggita» diventa «Tosca è fuggita.» Emma, soggetto antropologico e oggetto poetico dell’amore, è sfuggente, è una Madonna laica, incontaminata e disgustosamente violata, una Monna Lisa, dentro i cui sospiri profetici si può smarrire, in modo temporaneo, il tragitto. Tuttavia, assodati Chatwin, Herzog e verosimilmente anche la tradizione del cinema italiano, che va da Paolo e Vittorio Taviani al Maestro Olmi, se dovessi pensare a un unico riferimento letterario per Re Granchio, tornerei ai versi che ho citato in apertura, e cioè a Thomas Stearns Eliot; nella fattispecie a Little Gidding, il quarto dei Quattro quartetti, alla stagione «sospesa nel tempo tra polo e tropico» ove «acqua e fuoco succedono alla città, al pascolo e alle erbacce» (op. cit.). E così via, in un tempo sospeso, o in cerca di un El Dorado che esiste solo nella mente obnubilata. Una specie di eterno ritorno nietzschiano, in definitiva, che non è tale in se stesso, ovvero non nel suo significato ieraticamente uroborico, ma nella circolarità liturgica della tradizione orale e, come naturale prosecuzione, di quella teatrale e cinematografica.
Perché «non è il valore che conta, ma l’immagine», asserzione che calza sia per il tesoro ricercato nella laguna del Patagonia, sublimazione del vero tesoro, il monile etrusco, che per il cinema e per il bagaglio di storie che lo hanno foraggiato e lo foraggiano. L’immagine della donna amata – quindi già icona, irraggiungibile nella sua essenza/assenza, uccisa –, quella della vis tragica dell’uomo che volle farsi re, libero eppure avvinghiato dalle catene dei suoi sensi di colpa. In fondo la leggenda, anche quella popolare, o forse soprattutto quella popolare, è parente stretta della fiaba, quindi anche di un racconto come quello anonimo, attribuito a Esopo, Il granchio e la volpe (che se lo voleva mangiare). La morale estesa è semplice come quella testuale: la bramosia di conoscenza, che di solito accompagna l’afflato di libertà, comporta dei rischi, qualche volta fatali. È la maledizione benedetta dei cercatori d’oro, degli esploratori e dei filosofi. Un po’ anche dei cantastorie.
