TRAMA
Justine comincia il primo anno della facoltà di veterinaria, frequentata anche dalla sorella maggiore Alexia. La famiglia delle due ragazze è rigidamente vegetariana, ma Justine comincia a sviluppare un irrefrenabile istinto carnivoro, che sfocia nel cannibalico…
RECENSIONI
La cruda verità
Corpo di donna in fieri, sottoposto a una via crucis incessante ed escrescente, a una carneficina cutanea che si acutizza senza via di scampo: è il corpo di Garance Marillier nell'esordio di Julia Ducournau (gemmato dal suo primo corto, Junior) che la precipita in inferni simili a quelli scoppiati addosso alla carne di Béatrice Dalle in Cannibal Love - Mangiata viva e in À l'intérieur, e di Isabelle Adjani in Possession. Garance/Justine, a differenza loro, è piccola piccola, flebile, stiracchiata, minuta, il suo è un corpo quasi infantile, dall’apparenza androgina, stretto dentro larghi maglioncini, dalla pelle senza trucco, priva di filtri, di argini e di corazze, continuamente esposta all’aggressione di agenti esterni. A forzature improvvise e pervasive, a forze d'invasione che la prendono d'assalto fin dalla prima scena (la polpetta nascosta “a tradimento” nel purè, da espellere sotto gli occhi ansiosi dei genitori vegetariani) per irrompere drasticamente quando la ragazza mette piede al college. Il rito d'iniziazione che come le altre matricole subisce da parte degli studenti veterani sfila letteralmente a Justine il terreno sotto i piedi, la mette in ginocchio poi la precipita in una massa brulicante di volti, bocche, lingue, braccia e gambe, sudore e saliva, sotto una doccia di sangue dagli strascichi inevitabilmente kinghiani, e, dulcis in fundo, la obbliga a ingoiare un bel boccone di carne.
È a quell'ennesimo sconfinamento che il corpo fragile di Justine, piegato ripetutamente a norme, azioni e sostanze che partono sempre da altri, si divincola: con un riflesso involontario, un rantolo di ribellione che amplifica la sua alterità mostruosa e le dà una direzione oppositiva a quella altrui, e repulsiva, prima di tutto per la stessa padrona. A un’irritazione cutanea inspiegabile, un insostenibile prurito che la porta a grattarsi compulsivamente, segue una fame di carne: prima cruda, poi umana. Che va a braccetto con, e si sovrappone a, un lancinante desiderio sessuale. Una pulsione famelica, di consumazione mortifera. Justine è così assoggettata a una doppia violazione: quella del suo corpo alla deriva in un delirio mutante di escoriazioni e istinti irregolari e osceni, e quella continua degli altri, adulti, compagni, persino la sorella maggiore Alexia, tra una cascata di vernice e una depilazione «male necessario», un’ubriacatura che ne rivela demoniacamente lo stato brado e un preliminare non richiesto. Da questa angolazione d’incubo, Raw è la storia di una ripugnanza di sé, della propria materia organica, viva e carnale che muta tragicamente, in una maniera che per Justine non può non essere terrificante e dolorosa perché certificazione effettiva della sua diversità. E dell’orrore di un corpo umano contrapposto a quello, così ammirato e rispettato, puramente animale - certo durante i corsi sezionato e esplorato in parti altrettanto ripugnanti (le feci, le budella) ma che quantomeno documentano una naturalità, una sensatezza, sono agganci a una possibilità di controllo, di scientifica analisi e ragione.
Ma è anche un romanzo di formazione, Raw, perché Justine - predata ancora e ancora, dentro e fuori, da preda come da predatrice - si dibatte disperatamente per cercare un equilibrio, per definire a quale natura appartenere, quale condotta anche esistenziale inculcare a un corpo che trasgredisce il mondo interiore impartitole, un corpo che, agonizzante, prende a morsi le proprie catene manifestandosi attraverso la stessa violenza con cui è stato imbrigliato, nel tormento soverchiante di un desiderio che la ipnotizza e possiede, esso stesso un esorcismo ai dettami della normalità, dell’accettazione sociale. Raw racconta di questo, infine: di un affrancamento da sistemi di controllo (ancora lui) esterno - parentale, sociale, istituzionale - ed interno - genetico: il cannibalismo è di famiglia -. Dell'attuazione di una scelta di natura (ancora lei) individuale, per mezzo di un battesimo gore e di un atto di negazione. Perché mentre Alexia fa un passo oltre, cedendo e concedendo all'appetito di consumare Adrian, il compagno di stanza e love interest di Justine, la Nostra invece erige un confine, di tipo affettivo: la presa di posizione - e non di reazione o di difesa - che finalmente la qualifica, ne contrassegna un movimento prescindente da comandi eterodiretti. Justine non divora Adrian (l'unico a starle vicino, d'altronde anche l'unico a condividerne la solitudine e l'emarginazione, da adolescente gay) né giustizia Alexia per l'atrocità compiuta, decidendo per un gesto di compassione, di umana pietas: nonostante la chiusa beffardella, è un incastro che rilancia nuovamente il carattere del film, mutando in parabola di resistenza questo body horror feroce e lucidissimo che fino all’ultimo ha spinto le prerogative estetiche del proprio genere all'estremo e allo stremo.