Drammatico, Recensione

RASHOMON

Titolo OriginaleRashomon
NazioneGiappone
Anno Produzione1950
Durata84'

TRAMA

Kyoto, XI secolo. Sotto il portico del tempio di Rasho un taglialegna e un monaco riferiscono a un viandante differenti versioni di un brutale fatto di sangue. Qual è la verità? Cos’è la verità?

RECENSIONI

Scrivere di un “capolavoro” riconosciuto, già ampiamente scritto e analizzato come Rashomon non è cosa facile: il rischio è quello di buttar giù un semplice assemblaggio del materiale critico disponibile. Bene. Messe le mani avanti, e prima di venire al dunque, scrivo tre, rituali parole introduttive per dire che Rashomon (Leone d’Oro a Venezia nel 1951), tratto da due racconti dello scrittore primonovecentesco Akutagawa, è film dall’importanza “storica” indiscutibile: sdoganò non solo Kurosawa ma il cinema giapponese tutto, contribuendo ad aprire definitivamente le porte occidentali alla cinematografia nipponica (Ozu e Mizoguchi su tutti). L’aspetto però più interessante della pellicola, quello se non “dibattibile” ancora “didatticamente” proficuo e degno, quindi, di essere ribadito e approfondito, è la sua struttura narrativa quasi interamente demandata a enunciazioni simulate che vendono immagini bugiarde mirate a costruire, per gradi, la verità del testo cinematografico (corsivi casettiani. E Casetti tornerà tra poco). -Nessuno dice la verità, non abbiamo il coraggio di dire le cose neanche a noi stessi- questa la dichiarazione di poetica affidata alla voce del personaggio del viandante. La tesi centrale del film, infatti, molto novecentesca e assai pirandelliana, è la sostanziale inesistenza di un’unica “Realtà Oggettiva”, data dall’impossibile somma algebrica delle infinite realtà soggettive che insieme la “costituiscono” e la “destituiscono” di valore. Il Maestro giapponese ha cinematograficamente restituito questo assunto costruendo il film su un tripartito abîme di flashback più o meno truffaldini: incastonata tra un prologo e un epilogo filosofico/antropologici (nel prologo il monaco sentenzia la “morte della fiducia negli uomini”, nell’epilogo si ritrova/riscopre tale fiducia) c’è infatti una triade di flashback che, a sua volta, ne contiene/intreccia altri cinque (sei?) che forniscono diverse versioni (spesso contraddittorie) della stessa vicenda. Comincia (1) il taglialegna che riferisce la sua versione dei fatti e poi quella del monaco, dell’informatore della polizia e del bandito Tajomaru. Segue (2) il monaco, narratore delegato di Masago, la moglie del samurai Takehiro, e di Takehiro stesso, che però è morto e dunque parla per voce della maga; chiude infine (3), dotando il film di una struttura circolare/palindroma, di nuovo il taglialegna che sembra svelare finalmente la (sua) vera verità. Come si intuisce, il film è ancora più complesso di quello che sembra a prima vista: non solo, infatti, la progressione drammatica è affidata a luoghi enunciativi come i flashback che già “complicano”, raddoppiandola e stratificandola, la narrazione filmica, ma questi stessi luoghi enunciativi sono a loro volta raddoppiati (personaggi che raccontano racconti di altri personaggi) o addirittura, “magicamente” triplicati (il monaco che riferisce il racconto della maga che parla con la voce del samurai ucciso). Ne risulta un dedalo diegetico affascinante e assolutamente funzionale alla restituzione di una realtà/verità impossibile da oggettivizzare. Tale costruzione, labirintica e ambigua, poggia anche su una sapiente gestione dei punti di vista: Kurosawa “abolisce” quasi del tutto la soggettiva in favore di oggettive (non irreali) e di interpellazioni, con un gioco di sguardi perfetto: al credere transitorio delle soggettive, troppo legate alla “fiducia” che di momento in momento ispirano i singoli personaggi, e al credere assoluto delle oggettive irreali, prive di qualsivoglia ambiguità, si è preferito il credere saldo delle oggettive. Si tratta di sguardi “neutri”, fededegni ma del tutto equiparabili gli uni agli altri, pronti a entrare in contraddizione interna per confondere le acque informative dello spettatore, a sua volta chiamato direttamente in causa, interpellato dagli sguardi in macchina dei personaggi che gli si rivolgono direttamente, al posto di polizia, come a una (muta) Autorità dalla quale devono/vogliono essere “giudicati”. Quasi inutile, a questo punto, ricordare la modernità, l’assoluta attualità di un film come Rashomon, già così radicale nel superare il racconto cinematografico tradizionale, nel soggettivizzare la realtà, nel frammentare il proprio impianto narrativo e nel chiamare in causa lo spettatore per invitarlo a “giocare”, caratteristiche queste che oggi non esiteremmo a definire (post)”moderne”; si pensi solo alle seduzioni teoriche di un film come Snake Eyes, di Brian De Palma, giocato proprio su una serie di (quattro) flashback più o meno menzogneri e contraddittori che ricostruiscono progressivamente la “verità”, o, infine, all’esplicita dichiarazione di “poetica lynchiana”, di integralismo soggettivista, da parte di Fred (Bill Pullman) in Lost Highway: - I like to remember things my own way, how I remember them, not necessarily the way they happened -.