Animazione, Sala

RANGO

Titolo OriginaleRango
NazioneU.S.A.
Anno Produzione2011
Durata107'
Sceneggiatura
Montaggio
Scenografia

TRAMA

Un camaleonte domestico si ritrova nella città di Dirt, nel selvaggio West, dove guarda caso c’è bisogno di un nuovo sceriffo…

RECENSIONI

Rango ce la mette tutta per dimostrarci la sua arguta strange-itudine autoreferenziale e meta-citazionista riuscendoci per, diciamo, quattro-cinque minuti. Il teatro dell’assurdo inscenato da Rango nel suo terrario è foriero di momenti di genuino straniamento (Verbinski aveva già dato prova di onirico talento in una mini-sequenza del terzo Pirati), la rivelazione che rompe la metarappresentazione è efficace (l'incidente), il rimando che chiude la sequenza è di quelli che non si esita a definire intelligente (il camaleonte spalmato sul parabrezza della Chevrolet Impala di Paura e Delirio a Las Vegas). Da lì, però, quando il film dovrebbe iniziare e farsi film, iniziano i problemi. Rango non riesce mai a crearsi una identità definita, autonoma e autosufficiente. Diremmo quasi che è un 'film senz'anima', se l'espressione non ci ripugnasse così profondamente.

C’è la proliferazione citazionista, che accumula e accomuna Paura e Deliro a Las Vegas, El Topo, Chinatown, i mariachi “narranti” di Cat Ballou, il bestiario moseisleyano di Gerre Stellari (con la guest star Jabba The Hutt), Apocalypse Now, ovviamente Django, ovviamente Per un pugno di dollari e Sergio Leone tutto e lo Spaghetti Western tutto e magari mettiamoci dentro altre Depp-ate come Dead Man o C’era una volta in Messico e magari frulliamo anche Mezzogiorno e mezzo di fuoco e altre parodie western varie (The shakiest gun in the west?) e otteniamo… un film per appassionati cinéphile? Ammesso e non concesso, il meccanismo citazionista è però notoriamente un’arma a doppio taglio: attiva nello spettatore una serie di feedback positivi e gratificanti (senso di familiarità, inclusione nel processo creativo, componente ludica del riconoscimento, intimità coltivata all’interno di una comunità) ma, in parallelo, rischia da una parte di generare una vuota e asettica catalogazione se non c’è adeguata contestualizzazione (ossia: 1. una sceneggiatura brillante che crea contesti adeguati per i testi citati) e dall’altra di innescare un meccanismo distruttivo se 2. il riconoscimento è in qualche modo ciccato da parte del fruitore e se, di nuovo, intorno ai para-testi manca un testo “forte”, con le idee chiare.

1.In Rango non ci è pervenuta la brillantezza dello script. Tutta l’intelligenza e l’arguzia che vengono quasi unanimemente riconosciute al lavoro di John Logan sono decisamente più dichiarate che effettive. Rango è un film che si presenta sfacciatamente convinto delle proprie doti, così convinto che sembra dotato. Ma se ci fermiamo ad analizzarlo, non lo è. Lo humour, con sporadicissime eccezioni, è affatto ordinario e in massima parte legato a fossilizzati cliché (l’antieroe per caso): Rango che si finge coraggioso e vince per sbaglio (o quasi), Rango che dice sicuro - ho un piano - e poi grida aiuto terrorizzato, e così via. E anche da un punto di vista narrativo, abbiamo una scrittura approssimativa che fa acqua da tutte le parti: alla “storia” difettano fluidità e chiarezza (cosa succede di preciso e perché) così come una chiave di lettura più o meno iperbolica e/o metaforica efficace (l’agnizione LasVegas-iana arriva tardi, cade dal nulla e finisce nel pochino pochino).

2.Sulla questione della capacità del fruitore di cogliere l'armamentario referenziale del film, invece, conviene aprire una parentesi: chi è il fruitore elettivo di Rango? E' la vecchia storia del 'film per grandi e piccini', vecchia come il film di animazione stesso, ma in qualche modo svecchiata dal post-postmodernismo in poi, quando il cartone (diciamo, per comodità, a partire dai Simpson) ha iniziato a stratificarsi ed embricarsi con rinnovata consapevolezza e inedite modalità. E' un discorso ovviamente complesso, impossibile da affrontare con la dovuta serietà/esaustività in questa sede, ma insomma, almeno a grandi linee, andava in qualche modo accennato. Perché è piuttosto ovvio che 'i bambini' non coglieranno nessuna delle citazioni di Rango né i momenti di mimesi compositiva. Ed è altrettanto palese che tutto l'impianto estetico/iconografico non è kids-oriented (né kids-friendly), con una fauna esteticamente ripugnante e poco simpatica (oltre che piattamente omogenea, pur nella teorica eterogeneità), mancanza di mascotte esplicitamente comiche e un'impostazione registica che riproduce il riferimento privilegiato (lo spaghetti western). Gli adulti appassionati avranno invece pane per i loro denti, e potranno magari compiacersi – momentaneamente - di ritrovare Corbucci e Jodorowsky in questo ambizioso cartoon, ma poi? Come la mettiamo con la debolezza, la goffaggine, l'indeterminatezza d'insieme, riscontrabile sia, come detto, a livello macro che, quasi sineddoticamente, a livello di singola sequenza? - un esempio per tutti: quando si leva lo stormo di pipistrelli, e parte il Wagner coppoliano, ci si aspetta uno scontro epico tra mammiferi volanti e Rattlesnake Jake, ma tutto quello che si ottiene è, per l'appunto, un'inadeguata e frettolosa (para)contestualizzazione del rimando che precipita nel vuoto, allorquando la sequenza stessa si risolve in un nulla di fatto di una manciata di secondi destinati all'immediato oblio-.

Un pasticcio irrisolto, questo Rango, che col doppiaggio perde anche il forte legame divistico con Johnny Depp (per quel che possa comunque valere…) ma che sta inopinatamente raccogliendo consensi un po’ ovunque. Personalmente, mi limito a stupefarmene e ribadisco che mi pare invece un perfetto exemplum  di film d’animazione completamente fuori fuoco, moderno in senso deteriore quanto emblematico, teoricamente destinato a scontentare tutti. Grandi e piccini.

Da sempre dedito ad un cinema-cartone animato, non stupisce il passaggio di Gore Verbinski all’animazione tout court, anche se ha prima girato un live action e, poi, s’è affidato alla computer grafica della ILM (co-produttrice con la Nickelodeon dei Rugrats, Jimmy Neutron e Spongebob), ri-scritturando il Johnny Depp dei Pirati dei Caraibi per la voce del protagonista. Funziona la caricatura degli animali del deserto (o giù di lì) in brutti ceffi western (il look della famiglia di talpe è strepitoso), quel gusto tutto verbinskiano per il “dirt” (vero nome della cittadina, che in Italia diventa “Polvere”) innocuo, funziona qualche gag (i “blocchi” di difesa della lucertola Bortolotta, il primo incontro con l’iguana nel saloon) e qualche personaggio “epico” (il serpente a sonagli) ma, per il resto, il racconto è banale sia in ciò che dice sia per come lo dice, nel segno di Sergio Leone (note alla Morricone comprese), ripassato per Django, Chinatown (il sindaco ed il controllo dell’acqua) e con uno dei temi preferiti di Sam Peckinpah, il progresso che spazza via il mito della frontiera. Ci sono invenzioni originali: su tutte, l’idea allegorica del passare “dall’altra parte” attraverso l’highway assassina e trovare le proprie divinità (come si fosse morti), nella fattispecie l’uomo senza nome di Clint Eastwood, che ha pronta la morale per il camaleonte impostore. Quest’ultimo, però, è protagonista di situazioni che al cinema si sono viste troppe volte, consegnate ad una drammaturgia tradizionale dallo sceneggiatore John Logan, quando potevano avere il beneficio di una struttura astratta, impazzita. Un procedere scontato che abbandona le idee più simpatiche (i gufi mariachi iettatori) nel deserto: l’opera in 3D, però, ha avuto successo e, a suo modo, ha segnato la via per un cinema d’animazione che replica le inquadrature ed i modi del cinema dal vivo (è stato ingaggiato, come consulente visivo, il direttore della fotografia Roger Deakins).