Musicale

RADIO AMERICA

TRAMA

A Prairie Home Companion, programma radiofonico regolarmente in onda da più di trent’anni, è giunto al suo ultimo giorno di vita. Il luogo da cui trasmette ogni settimana – il Fitzgerald Theater di St.Paul nel Minnesota – sarà presto distrutto. Al suo posto un parcheggio.

RECENSIONI

L’ultimo giorno di vita del glorioso programma La voce amica della prateria, istituzione radiofonica statunitense che vanta milioni di ascoltatori, è soltanto un pretesto per parlare del mondo della radio, un mondo al tramonto, a fine corsa, sul punto di essere spazzato via da mezzi di comunicazione più invasivi e da un mercato sempre più prepotente e aggressivo. Come sostiene “il tagliatore di teste” (un Tommy Lee Jones sublime), il funzionario della compagnia che ha rilevato il teatro per farne tabula rasa e costruirci sopra un parcheggio, quello della radio è un mondo appartenente al passato, anacronistico, addirittura ancestrale: tanto vale videoregistrare lo spettacolo, questo curioso reperto tra l’antropologico e lo zoologico, e rinchiuderlo in un museo, metterlo sotto vetro. Al contrario, quello che interessa a Garrison Keillor - storico conduttore del programma, sceneggiatore e interprete di se stesso nel film - è immortalare il suo oggetto d’amore e al tempo stesso mostrarlo in tutto il suo decadente splendore. Una struggente dichiarazione d’amore nei confronti della radio, insomma, e di un programma con cui Keillor si è totalmente identificato, quell’A Prairie Home Companion che nella realtà extrafilmica non rischia affatto di chiudere i battenti. Fin qui niente di male. Anzi. Il problema è che la sua sceneggiatura è orribile: ruffiana, buonista, tremendamente stereotipata, trasuda una sfiducia nei confronti dello spettatore letteralmente allarmante. Squadrati con l’ascia, i personaggi non oltrepassano lo statuto della macchietta, costringendo lo spettatore all’applicazione meccanica di etichette convenzionali: di due sorelle, una (Yolanda) è sentimentale, l’altra (Rhonda) necessariamente cinica, i due cantanti cowboy sono immancabilmente misogini e sboccati e l’emissario della compagnia nemica, ovviamente, senza scrupoli e ignorante come una capra. La costruzione dei personaggi è fallimentare, in una parola. Ma è il trattamento della materia in generale a non convincere affatto: siamo obbligati a solidarizzare con questi eroi dell’etere per partito preso, senza che facciano nulla per meritarsi il nostro interesse o la nostra simpatia. Il solo fatto di essere coinvolti nella chiusura del programma radiofonico dovrebbe collocarli in una fascia di realtà superiore al conflitto e all’ambiguità, trasformandoli automaticamente in martiri, in vittime della modernità e della tecnologia (si parla di computer come macchine urlanti!). Trovandosi di fronte questo script imbarazzante, Altman, voluto a tutti i costi da Keillor nonostante le riserve della produzione, ha visibilmente cercato di terremotare la struttura drammaturgica attraverso il consueto ricorso alla recitazione corale, all’improvvisazione e all’overlapping dialogue. Ma è soprattutto per mezzo dello sguardo che l’ottantunenne cineasta di Kansas City tenta di stravolgere la banalità e la piattezza del copione: non c’è una sola inquadratura fissa in tutta la pellicola. Le tre macchine da presa piazzate sul set ringhiano in continuazione, stringendo e allargando senza posa sui corpi e sui volti dei protagonisti con leggerissimi zoom, carrellando inquiete con incessanti movimenti laterali e obliqui e, infine, sollevandosi sontuose in dolly di felpata eleganza. Uno sguardo irrequieto, insoddisfatto, non riconciliato, che riscatta almeno in parte uno script suicida, che in mano ad altro regista sarebbe degenerato in farsa o in dramma lacrimogeno. Gli amanti delle prestazioni attoriali andranno senz’altro in sollucchero: Meryl Streep e Lily Tomlin sono semplicemente fenomenali, Kevin Kline e Virginia Madsen perfettamente in parte e Woody Harrelson e John C. Reilly talmente bravi da trasformare un duetto di greve trivialità in un frammento di cinema memorabile. Sia detto a chiare lettere: paragonare Radio America a Nashville è da persone sotto effetto di alcaloidi. Doppiaggio criminale.

A prairie home companion, a prima vista una declinazione logica di cinema corale dalla mano del suo massimo esponente, si offre come delicato dedalo di generi (drammatico, sentimentale, melò, musical, giallo, western - solare il richiamo di Harrelson e Reilly - , supernatural movie) di sopraffino dosaggio, un fluido abbraccio di elementi che trova una fine tramica ma continua a dibattersi ferocemente nelle spire della vita (nell'ultima sequenza si riuniscono i personaggi, irrompe la morte, si organizza il prossimo tour). Altman, che ha già concluso la sua opera e a un tempo ne resta all'apice - dal capolavoro Gosford Park per ogni film si grida al testamento -, appare ormai disinvoltamente estraneo alla nuda scansione degli eventi e sempre più impegnato nella personale opera di rovesciare la macchina cinema, una bestia di cui spezzare le catene, in un costante allargamento dei confini della visione. Se The Company raccoglieva la sfida - meno riuscita - di filmare la danza qui, sempre in osmosi con un altro cervello d'artista e raccogliendone scientemente i capricci (da Neve Campbell a Garrison Keillor che, con sublime ironia, scrive l'ultima puntata del programma di successo che tuttoggi dirige), si scatena l'impossibile paradosso di applicare il mezzo cinematografico su quello radiofonico. Un film che filma la radio, dunque, nel cui solco vive un vespaio di passioni come disturbi di frequenza alla messa in onda. E' la fase finale di un programma/istituzione, annuncia un Bogart in caricatura, divorato dal grottesco dettame del business (la macchietta impagabile di Lee Jones), si schiudono le porte di un acquario umano trattato con maliziosa ironia e sincera tenerezza. Da leggere quindi al secondo grado sono gli archetipi che nutrono la sceneggiatura (dentro, al solito, c'è tutta l'America - per metonimia la razza umana -: dalla struggente sorellanza all'amicizia virile, attraverso l'amore senile e il tormento adolescenziale), volutamente impastati sulle stazioni dello scherzo (la ragazza che finge le doglie), della parodia (l'ossessione di Lola per il suicidio è degna del primo Allen) e della sentita rivisitazione. La platea osserva lo spettacolo ma non vede il rumore fuori scena, dove registri diversi si confondono fino alla collisione; un volteggio continuo eppure sinuoso che, consueta la maniacale cura del dettaglio, non rinuncia a nulla (nel finale, essenziale la pioggia di volgarità di Lefty e Dusty, che cambiano suono dopo la morte di Chuck, per completare il regalo al genere), mescola osmoticamente vita e arte - il sentimento malriposto di Yolanda si traspone in musica - e lancia, quasi a sorpresa, nitidi periodi visivi (lo squarcio michelangiolesco dello spettro che accenna una carezza al cadavere, per alleviare il lutto del vivo). Spiazza questo film che smonta la radio e sbircia l'interno, per la miscela e insieme la sapiente manomissione delle sue tessere, la resa suprema di tutti gli interpreti (il duetto Streep/Tomlin su My Minnesota Home colpisce al cuore), l'impianto finzionale che inscena la falsa chiusura di una vera trasmissione in un vero teatro. Questa è l'ultima volta, ma non finisce mai.