TRAMA
La storia vera del pluricampione del mondo Jesse Owens, un talento naturale che partecipando alle Olimpiadi del 1936 lasciò Berlino e il terzo Reich senza parole vincendo 4 medaglie d’oro nei 100, nei 200, nella staffetta 4×100 e nel salto in lungo ed entrando di diritto nella leggenda.
RECENSIONI
Si può far vivere un’emozione allo spettatore, oppure la si può illustrare. Stephen Hopkins opta per la seconda. Ha la fortuna di raccontare una storia che già di suo è molto potente e perfetta per il cinema. Strano che nessuno ci avesse ancora pensato. La figura dell’atleta nero James Cleveland Owens, che vinse quattro medaglie d’oro alle Olimpiadi del 1936 svoltesi a Berlino in pieno regime nazista, offre infatti talmente tanti spunti e possibili sottotrame che sarebbe potuto uscirne un serial. C’è la determinazione di un talento naturale dell’atletica che lotta per la sua affermazione personale; c’è la difficoltà di un nero, nell’America del 1936, di far sentire la sua voce in un mondo dove chi ha il diritto di parola è bianco. C’è il parallelismo con una geografia lontana ma non troppo, dove la epurazione razziale prende una forma ugualmente dispari nel puntare alla superiorità di un’unica razza ma meno incline al compromesso. Poi ci sono un coach bianco in cerca di riscatto, un compagno di allenamento nero speranzoso anche lui di qualificazione, una moglie e una figlia da mantenere, ma pure una bella amante a cui cedere dopo i primi successi. E una volta arrivati a Berlino ci sono Hitler e Goebbels e Leni Riefenstahl, ma anche il rivale ariano “Luz” Long, con cui si crea un’inaspettata complicità, e i due atleti ebrei con cui l’empatia è inevitabile e la figura chiave di Avery Brundage, futuro Presidente del Comitato Olimpico Internazionale, fondamentale per il ruolo diplomatico che ricopre (la traduzione pacata e non letterale dei dialoghi con Goebbels è sintesi efficace dei conflitti in atto). E poi c’è lo sport, che permette di superare qualsiasi barriera e di trovare un punto di incontro nella condivisione di un ideale di sana competizione, e non può mancare la necessità di essere vincenti, pena la squalifica dalla vita, nel DNA dell’America ma qui più che mai oggettivata dalla Storia.
La carne al fuoco è quindi davvero tanta e la sceneggiatura opta per mostrare tutto, perché tutto pare in effetti degno di nota e in grado di suggerire spunti, in teoria, non banali. Il problema è la mancanza di profondità con cui ogni snodo è affrontato e ogni tappa è scandita, attraverso battute, anche ad effetto, che hanno il compito di riassumere punti di vista e svolte risolutive. Siamo dalle parti di Selma nella messa in scena della realtà afroamericana dell’epoca, con i neri sempre ragionevoli, vestiti a puntino, pronti a scatenarsi nel jazz e a rimboccarsi le maniche per fare il proprio dovere. Ma tutte le caratterizzazioni scontano luoghi comuni e stereotipi e anche il legame più importante, quello tra Owens e il suo allenatore, soccombe alla fretta con cui ogni entrata in scena punta a un’evoluzione del racconto. Lo stesso Owens è pedina inerte della sceneggiatura e di ciò che prova, dei suoi timori, dello stato d’animo con cui porta sulle spalle il peso della Storia, finiamo per non captare granché. Poche sfumature, ombre e luci tagliate con l’accetta, molte spiegazioni a supporto delle azioni, una computer grafica a volte riconoscibile, ma anche interpreti adeguati e una credibile ricostruzione d’epoca e del contesto olimpionico, per una narrazione in cui la chiarezza e la linearità hanno la meglio sulla suggestione e il sottinteso.