Drammatico, Sala

RACCONTO DI DUE STAGIONI

Titolo OriginaleKuru otlar üstüne
NazioneTurchia, Francia, Germania, Svezia
Anno Produzione2023
Durata197'
Scenografia

TRAMA

Samet, un giovane insegnante d’arte di Istanbul, svolge il servizio civile in un remoto villaggio dell’Anatolia. Dopo aver insegnato per quattro anni in una scuola locale, lui e il suo collega Kenan affrontano accuse di molestie sessuali da parte di due studenti.

RECENSIONI


La vita intera parve, a un tratto, sprofondata nel disgusto, come se un enorme rospo, appoggiato con il suo ventre enorme sui colli, avesse avvolto in una bava urticante la città. All’arrivo della primavera […], il contagio era ormai divenuto orbitale, il rischio della possessione del Male totale. Non rimase che scegliere se essere incubi o succubi».

È un estratto del prologo di un romanzo di Antonio Scurati, Il bambino che sognava la fine del mondo. La parte omessa della citazione indica l’esatta collocazione spazio-temporale – Bergamo, 2008 -: tolta questa, il testo s’adatta a inquadrare la sensazione che incombe sulle immagini di Racconto di due stagioni, il film di Nuri Bilge Ceylan. Anche qui, come nel libro di Scurati, a fare da perno della storia è l’accusa di molestie compiute da un insegnante, Samet - insieme al collega e coinquilino Kenan – ai danni di due giovanissime studentesse. Denunciato il fatto, s’insinua, come una pestilenza, il germe del sospetto: il contagio s’allarga travolgendo tutti, mettendo in discussione i rapporti e persuadendo a ignorare l’evidenza e a sovravalutare gli indizi. E noi, di fronte ad avvenimenti né veri né falsi, siamo testimoni impotenti, spettatori fragili di fronte al propagare dell’infezione, incerti rispetto alla linea che separa la vittima dal carnefice, l’accusato dall’accusatore.

Ceylan, alla maniera di C’era una volta in Anatolia, non dà modo di prendere una posizione netta nei riguardi dei suoi personaggi, tutti costruiti come fossero una millefoglie: ognuno poco a poco rivela altro di sé, spesso opposto della prima impressione, così che, per quanto stratificato, rimane comunque un soggetto - per riprendere ciò che già mise in luce Alessandro Baratti in merito al film del 2011 - a «bassa definizione».
Tutto ciò è evidentissimo nella caratterizzazione di Samet, che rimane una figura inafferrabile: all’inizio appare – o meglio, vorremmo che appaia - come un “buono” – perché sarà lui a traghettarci nella visione, a offrirci il proprio punto di viste sulle cose -, ma gesti e parole dimostrano, invece, la sua piccola meschinità, il suo egoismo, il suo narcisismo, la sua autoindulgenza. Basti soltanto pensare al modo subdolo in cui affronta la relazione con Nuray, collega pasionaria, segnata a vita dalla sua militanza, di cui è attratto – e probabilmente ricambiato – anche Kenan: pur promettendo alla ragazza di non dire nulla della nottata trascorsa insieme, appena rincasato rivela, con incuranza, l’accaduto all’amico; al confronto con lei, prima di andarci a letto, che ha la tensione di una sfibrante disputa ideologica, una sfida dialettica così estenuante (al termine della quale Samet dovrà accettare la sua impermeabilità al mondo) da ricordare quelle orchestrate da Cristi Puiu in Malmkrog.
La stessa ambiguità contraddistingue anche Savim, la piccola accusatrice; una presenza sfingea che ricorda la Ragazza afghana dagli occhi verdi resa immortale dallo scatto di Steve McCurry: dietro il loro sguardo un mistero destinato a rimanere, per sempre, insoluto e insolubile. A dichiararlo, alla fine, è lo stesso protagonista quando si dice: «Cosa cercavo in lei? In questo immobile paesaggio desolato, forse ero alla ricerca di qualcosa che non riuscivo a trovare in me stesso: un’energia, un piccolo segno di trascendenza. Non avevo sognato lei, ma qualcosa che andava oltre. In realtà volevo solo renderla un mezzo per raggiungere il mondo immaginario che avevo creato al di là di lei».
Ma l’accusa di molestie e la conseguente paura del marchio d’infamia sembrano in realtà il bubbone, l’ascesso d’un Male collettivo, morale e sociale. Gli spari che fanno da sottofondo alle notti insonni di Samet ci lasciano immaginare un paese, la Turchia, che vive minacciato dalla prossimità della guerra; un paese raccontato da uno dei suoi orli estremi, da un villaggio sperduto dell’Anatolia, che il protagonista vive come una condanna; un paese le cui storture si riflettono nei modi in cui viene gestito il presunto fatto al centro della narrazione, che diventa così allegoria più vasta di tanti altri casi: la pratica della delazione come conseguenza della soggezione esercitata dall’istituzione – sempre burocratica, cavillosa, formalista.
S’è chiamato in causa Malmkrog; anche qui siamo davanti a un film parlato, fatto di scontri verbali che “complicano” i personaggi, di dialoghi potenti simili a uno scontro a fuoco. Un film, come quello di Puiu, fluviale (tre ore e diciassette minuti, è questa la durata di Racconto di due stagioni), la cui lunghezza non va letta nei termini di un cinema che fa sperpero di storie, ma, al contrario, come un esempio di economia del racconto, di eccesso necessario: c’è bisogno di quel tempo, di quel rilascio lento, della somministrazione controllata di indizi perché la storia ci avvolga e ci trascini nel suo precipitato (proviamo a pensarci: se asciugassimo, se tagliassimo, l’architettura del film manterrebbe la stessa implacabilità?). Ma perché non ci si dimentichi mai che si tratta, per l’appunto, di una storia – con le sue strategie, con le sue retoriche -, Ceylan congela per qualche attimo la narrazione: le foto di Samet, mostrate senza essere mai “introdotte” o la fuoriuscita del protagonista dal set che si rivela, per riprendere le sue parole, come «un piccolo segno di trascendenza».