Drammatico, Recensione

RABBIT HOLE

Titolo OriginaleRabbit Hole
NazioneU.S.A.
Anno Produzione2010
Durata90'
Tratto dadall'omonima piece di David Lindsay-Abaire
Montaggio
Scenografia
Costumi

TRAMA

Dopo la morte del figlio di quattro anni, Becca e Howie tentano di andare avanti. I Corbett affrontano la perdita in modo diverso, secondo le rispettive sensibilità, ripercuotendo la situazione sul loro rapporto di coppia. La sorella di Becca annuncia di essere incinta.

RECENSIONI

Rabbit Hole segna l’incontro di due personalità artistiche, entrambe di origine teatrale: John Cameron Mitchell, che ha frequentato il palcoscenico prima del cinema (Hedwig era un musical off Broadway) e il drammaturgo americano David Lindsay-Abaire, qui sceneggiatore della sua stessa piece, premio Pulitzer nel 2007.

Nel testo la tragedia è già successa e si affronta l'elaborazione del lutto: non solo non si vede la morte di Danny (sono passati otto mesi), ma all'inizio si omettono le circostanze, ponendo l'esistenza di un personaggio-fantasma che letteralmente si 'muove' tra Becca (Nicole Kidman) e Howie (Aaron Eckhart). E' al centro delle loro discussioni come degli omissis, e addirittura delle azioni, vedi il notevole inizio con Becca che cura il suo giardino e prova a seminare qualcosa, a ripartire.  L'elaborazione del lutto, secondo Lindsay-Abaire, si sviluppa attraverso una serie di correlazioni; se la sorella resta incinta, favorendo il meccanismo di personificazione e sostituzione, anche la madre di Becca ha subito la perdita del figlio in passato: la 'morte della prole' si afferma quindi come tratto genealogico, ripetuto negli anni, e costituisce il primo elemento letterario (la maledizione tra generazioni) di una storia che guarda oltre i confini del realismo. Becca e Howie partecipano a un gruppo d'ascolto per genitori orfani dei figli:  sfiorano temi come l'esistenza di Dio e, in generale, si trovano a scegliere se 'vivere nella morte' o ritrovare una rotta propria con nuove coordinate dopo il lutto [1]. Il doppio binario su cui si ramifica la reazione dei Corbett (ricordare/dimenticare il figlio, avvicinarsi/allontanarsi dal partner ecc.) è il punto più convenzionale dell'intreccio, con scontri verbali tesi a esplicitare la sostanza del senso di colpa, e la figura di Jason (un Miles Teller misurato e dolente), colui che ha provocato la morte, a fare da catalizzatore dei sentimenti, dalla condivisione (Becca) alla negazione (Howie).

Non si intacca comunque la perizia di scrittura che anima lo scenario complessivo. Un'attenzione, questa, evidente soprattutto nei tanti nodi metalinguistici: gli autori operano sul ma anche nel testo, ricoprendolo di spunti che alludono alla situazione narrativa vissuta dai personaggi sullo schermo, di fatto sviscerandola, suggerendo nuove ipotesi per un secondo livello di lettura compiuto. Battuta chiave di Jason: 'E' solo una storia, io cerco di interpretarla'. Il fumetto rabbit hole del titolo, oltre all'ovvio riferimento carroliano, è prova di consapevolezza del racconto e apertura verso l'esterno. Attraverso altri due generi, il comics e la fantascienza (secondo e terzo elemento letterario), i personaggi si interrogano sulla teoria degli universi paralleli e, affermando infine un fondamento scientifico, aprono la porta a questa possibilità. Lindsay-Abaire/Mitchell, frequentando una 'fantascienza parlata', esplorano le possibilità narrative all'interno del Film Drammatico;  nella tana del coniglio non c'è solo l'elaborazione del lutto, allora, ma anche l'ipotesi che questo non sia mai avvenuto: il sospetto che esista un'altra versione, l'alternativa, un mondo parallelo in cui non si perdono figli, non si deve sopportare alcun senso di colpa. In virtù della sovrastruttura, il dramma di Becca e Howie non può che essere ripreso in atto: non c'è inizio né fine, in conclusione l'uomo afferma che 'qualcosa succederà' ma le piste si moltiplicano, le mani strette dei coniugi non significano the end ma in progress.

Cameron Mitchell, da parte sua, predilige cromatismi scuri per gli interni (è una casa del fantasma, appunto) e si apre a colori più chiari e solari nelle scene d'esterno, seguendo con eleganza e semplicità le curve dell'intreccio, il sentire dei caratteri; dall'altra parte non cade nella tentazione di girare la sequenza totale dell'incidente - che aveva evidentemente taglio cinematografico -, presentando invece un 'parziale' di impatto, giocato sul campo-controcampo Becca/Jason e sull'uso oculato del ralenti. Il regista, con questa piece, cambia totalmente registro rispetto a Hedwig e Shortbus ma in realtà riflette sugli stessi argomenti: anche qui dolori interiori trattenuti, che fuoriescono a lampi e si incrociano in vasi comunicanti; anche qui il tormento non si può affermare, ma forse lenire attraverso il contatto con l'altro.  Ancora la Diversità, in una lettura quasi astratta (la morte del figlio, come farsi evirare, genera uno scarto). E infine la ricerca di liberazione: dal lutto, naturalmente, ma anche a livello sessuale (il rifiuto di Becca al marito). Cameron Mitchell paga il pegno degli attori famosi (Kidman e Echkart non conquistano, ferma restando la netta superiorità della prima) ma rispetta la matrice teatrale, con personaggi che entrano/escono dalla visuale come dalle quinte, e  si propone interprete di un cinema-ibrido personale: dal palco al set, a scandaglio nell'animo affrontando temi rischiosi, senza perdere la bussola e senza timore del significato 'altro', metaforico, che si allunga oltre le pagine del testo.

[1] A questo è dedicato il dialogo più bello in assoluto: lo scambio nella cantina tra Becca e la madre, in cui si riflette sulla circostanze della morte di un figlio. Da qui il paragone: subire il lutto è come portare un mattone in tasca, spiega la madre, negli anni continui a sentire il peso ma ti abitui, riesci a camminare da solo. “It’s fine”, conclude la donna: in quel caso, dopotutto, va bene.