TRAMA
A Giorgia Cantini, investigatrice privata, vengono recapitate alcune videocassette con le riprese degli ultimi giorni della vita di sua sorella Ada, morta suicida 16 anni prima…
RECENSIONI
Saltiamo a pie’ pari il romanzo di partenza di Grazia Verasani, per il semplice motivo che non lo abbiamo letto, per dire (non più di) due cose sull’ultimo film di Salvatores, Quo vadis, Baby?, il quale scorre via davanti ai nostri occhi, sfuggendoci volatilmente per non luogo a persistere così come il vino versato e tracannato, seppur avidamente, quasi in un sol gesto dalla protagonista, un fluido che non si assapora poiché privo di consistenza e struttura, come direbbero gli enologi. Non c’è corpo nel film. Quella che potrebbe essere una, anzi, la sublime tautologia di tutto il cinema, incluso quello fremente e appassionato benché di ingenua, abborracciata cinefilia (truffautantonionlanghianbertolucciana) salvatoresiana, finisce con l’essere, a partire da un chiaro pretesto diegetico sulla recherche di una verità del corpo (dei corpi), ma anche di una verità-corpo, una verità che dia corpo, un giochino esile esile sulla fantasmizzazione (non solo) dei corpi, dei desideri, del rimosso che ritorna come uno spettro baudelaireiano e dunque del desiderio di sapere e di sapersi ancora una volta come corpo, come substrato materico che resiste al e nel tempo, come voce, come memoria di attimi ri(t)mati da altro (e qui si fa lievemente interessante il dis-correre sulla musica [la presenza di Angela Baraldi], e i suoni in genere, come erlebnis eteronoma che scandisce l’evento e il ricordo di questo), e dunque ancora come passato, ovvero come ciò che passa (temporalmente) e lascia tracce al suo passare (vagando, senza geometrie precise, così come è l’incedere di Giorgia, basculando tra caso e necessità). Il transito e lo scambio indebiti e tuttavia continui e ineluttabili tra corpo e immagine, e le loro insondabili, impercorribili intercapedini (osservate sempre da Giorgia che per un attimo si smarrisce nell’abisso di uno sguardo a testa in su, nella casa appartenuta(?) ad Ada, in una delle sequenze più riuscite del film) decretano dopo il lungo inseguimento attraverso i dedali della metafora (fascinosa l’allegoria visiva dei portici bolognesi, dilatati su una notturnità, che fraseggia in sottile alternanza con l’oscurità interiore [gli interni, gli antri, una spazialità tutta allusiva], vaporosa voluta, cercata, esibita, mai astringente poiché Salvatores preserva l’evanescente purezza visiva evitando accuratamente di contaminarla con le oleografie cromatiche dei generi [il thriller, il noir]) la fatale verità delle immagini, già sempre imago mortis prima di qualsiasi rivelazione finale, ri-produzioni seriali che si avvolgono e riavvolgono su se stesse ovvero, ad libitum, sull’imperturbabile elicoidalità del nastro moebusiano vedere/essere visti (ah! il mestiere(?) della fotografia!) all’infinito. Oltre l’illusione di essere (corpo/immagine), oltre il cinema. La pellicola, autoreferenziale, non va da nessuna parte, è sempre lì pronta ad essere anch’essa riavvolta e riproiettata, nella sua oggettualità riproducibile. Forforward. Stop. Rewind. Quo vadis, Baby? Video ergo (non) sum. Stop.

Tratto dal romanzo di Grazia Verasani, è un giallo psicologico ambizioso, un poco sopra le possibilità di Salvatores che, comunque, s’impegna molto a livello di scrittura, mentre è sempre innegabile il suo talento a livello di resa iconografica-cinematografica, vedi anche la suadente struttura in cui le indagini del presente sono intervallate da spezzoni delle video-lettere e dai ricordi di infanzia, in soggettiva, della protagonista. Il problema è che il testo offre l’irresistibile possibilità a Salvatores di giocare con il medium, e non parliamo tanto della figura della fotografa che scava nelle vite (segrete) altrui e si ritrova fra le mani un altro “medium” di impressione della verità (il Vhs): soprattutto all’inizio, Salvatores mette in bocca alla suicida, aspirante attrice, frasi auliche, anche metacinematografiche, in modo gratuito, con il dramma che tenta di spiccare il volo verso spessori bergmaniani (lynchiani, secondo il regista), ottenendo l’effetto contrario del ridicolo naïf, dovuto anche alla direzione di recitazioni troppo impostate (si salvano Germano, un talento naturale, e Burruano). Lo stesso effetto che sortiscono le canzoni anni ottanta (Ultravox, Talking Heads…) e le citazioni filmiche spinte in ogni dove, troppo artificiose in un contesto di realismo psicologico e drammatico. Ciò non toglie che, nel panorama italiano, Salvatores ha sempre voglia di osare, frequentare generi diversi da restituire con professionismo tecnico e creativo ottimo: qui, oltretutto, per la prima volta pone una donna (per quanto abbastanza “maschiaccio”) al centro del suo cinema, e gira in alta definizione. A parte i due colpi di scena riferiti al suicidio della sorella (sulle due persone presenti immediatamente prima dell’evento), abbastanza inverosimili per come sono raccontati (il primo, giocato sulla battuta di Ultimo Tango a Parigi che dà il titolo al film, è troppo fortuito e la sceneggiatura doveva aggiungere una nota sul ruolo del Caso; il secondo compare troppo all’improvviso, con l’illogicità di chi sapeva e non aveva ancora detto niente), tutto funziona per atmosfera, mistero, sfondo esistenziale (la verità non fa bene a nessuno), e la chiusura è magnifica (l’ultima video-testimonianza scorre solo per noi spettatori), cita M Il Mostro di Dusseldorf e lascia tutto in sospeso. Ha dato origine, tre anni dopo, a un serial Tv.
